martedì 1 ottobre 2013

Il tempo dell'anima

C’è una fiaba che racconta bene come la bellezza del
tempo sia data da ritmi meno pressanti di quelli che solitamente
pratichiamo. Non ricordo più dove l’ho letta, o se
mi sia stata raccontata, ricordo però che narra la storia di
un uomo che doveva raggiungere un luogo per il quale era
necessario attraversare il deserto. Chiese aiuto agli aborigeni
australiani che conoscevano bene il territorio e gli
avrebbero fatto da guida. Si misero in cammino. L’uomo li
seguiva, si fermava quando loro decidevano che era giunto
il momento di mangiare, e dormiva quando preparavano
il fuoco vicino alle tende. Proseguirono il viaggio per
parecchi giorni poi, senza una parola, né una spiegazione,
d’un tratto, a metà di un pomeriggio qualunque, gli aborigeni
si fermarono.
«Cosa succede? Perché ci fermiamo?».
Silenzio.
«Dobbiamo rimetterci in cammino, non possiamo fermarci,
io ho un appuntamento importante».
Silenzio.
Gli aborigeni tacevano e l’uomo era disperato: non conosceva
il deserto e non poteva proseguire il cammino da
solo.
Trascorsero tre giorni di silenzio assoluto quando,
d’improvviso, si rimisero in viaggio. Subito l’uomo non
osò domandare nulla, per timore che si indispettissero e interrompessero
di nuovo il cammino, ma dopo un po’– visto che procedevano a passo spedito– osò chiedere: «Come mai ci siamo fermati e perché ora siamo ripartiti?».
«Perché avevamo corso troppo in fretta e avevamo perso
per strada la nostra anima– ora – lei ci ha di nuovo raggiunti».

Quando siamo alle prese con un nuovo progetto, quando
diventiamo genitori, quando iniziamo qualcosa di nuovo,
è probabile che veniamo fagocitati. Del resto, nelle varie
stagioni della vita – perché è di questo che parliamo
quando parliamo di tempo, della nostra vita, dal nascere al
morire -, è naturale che esista un’alternanza di ritmi, di
cose che si chiudono perché hanno concluso il loro ciclo, o
il loro senso, mentre altre si aprono. Di fronte al nuovo
tendiamo tutti a correre un po’, a investire tempo ed energie.
È naturale e bene che sia così, ma dobbiamo ricordare
anche un tempo dell’anima, un tempo più interiore, un
tempo dell’ascolto di noi.
Un tempo che accompagna le varie stagioni della vita
rispettando la loro differenza, la loro peculiarità. Un tempo
che scorre e attraversa, dalla nascita alla morte.

sabato 31 agosto 2013

Il dolore del corpo



          Venera Nera (2010) è un film del regista Abdellatif Kechiche: un pugno nello stomaco che richiede lungo tempo per essere smaltito. Narra la storia di Saartjie Baartman (1789 - 1815), nata in un villaggio della valle del Gambia, divenuta schiava di una famiglia di Città del Capo. Portata in Inghilterra, esibita come un fenomeno da baraccone in infimi spettacoli, compariva chiusa in una gabbia, o tenuta a un collare che il suo “padrone” metteva e toglieva secondo il grado di timore che voleva suscitare tra il pubblico per la presunta pericolosità della donna, soprannominata la Venere ottentotta. La storia si snoda lungo un percorso infernale nel quale il suo corpo viene esposto a un pubblico invitato a palpeggiare la consistenza della sua carne e a sfidarne la presunta “selvaticità”.
Il film gioca molto sui primi piani del suo volto ed è sconvolgente il dolore che si legge nel pozzo dei suoi occhi, a cui fanno da contraltare le risate sguaiate degli spettatori. La solitudine cresce di pari passo con la rabbia, ma quest’ultima è priva di quella forza che sarebbe utile a Saartjie Baartman: è una rabbia impotente. Infatti, quando un’associazione umanitaria denuncia il suo caso, nel corso del processo che ha lo scopo di stabilire se la donna sia una vittima o una simulatrice consenziente, Saaertjie confermerà la versione dell’uomo che la tiene schiava.

La lunga esperienza di sottomissione ha già irreparabilmente intaccato la sua volontà, e quell’unica ciambella a cui avrebbe potuto aggrapparsi si è allontanata per sempre. Dopo gli spettacoli, arriva il tempo dei bordelli, quindi della malattia (la tisi o la sifilide, non si sa) che la condurranno, a soli venticinque anni, alla morte.

Mentre sullo schermo scorrevano le immagini del processo speravo di assistere alla sua ribellione: una speranza delusa quando Saartjie testimonia in favore del suo aguzzino. Sulla faccia, la stessa espressione di quelle donne che, arrivate peste in qualunque pronto soccorso, raccontano di essere cadute dalle scale.

           Verso la fine della storia, c’è un passaggio nel quale la donna dovrebbe essere osservata dai naturalisti francesi, perché la forma delle sue natiche e delle sue labbra vaginali costituiscono interesse per uno studio che dovrebbe dimostrare l’inferiorità biologica di alcune razze umane. Per questo gli scienziati hanno pagato un’ingente somma al suo “padrone”. C’è lei, dunque, contornata da uomini che la osservano come un reperto inanimato. Inizialmente ha le sembianze di un fantoccio: l’abitudine a restare chiusa in una gabbia è oramai consolidata. Ma qualcosa succede all’improvviso: uno sguardo, una postura, un gesto che le donano una vitalità impensata. E quando le chiedono di togliersi l’ultimo lembo di stoffa che le copre i genitali, Saartjie rifiuta, e fugge.

A quel punto del film ho pensato che in tribunale non era riuscita a raccontare la verità, ma forse quel rifiuto avrebbe potuto finalmente imprimere un corso diverso alla sua storia. Non è andata così: il tentativo di opporsi a quell’ennesima umiliazione viene respinto con schiaffi e pugni di inusitata violenza. Annientata nella dignità, sopraffatta dal dolore, la protagonista si inabissa nell’alcool.

Una volta morta, il corpo verrà ricondotto nello stesso luogo in cui Saaertjie aveva pronunciato il suo unico no. E ancora una volta i naturalisti - tra i quali lo scienziato Georges Cuvier - possono abbandonarsi allo scempio: guardano, toccano, invadono, analizzano.

   Fu solo attraverso cause legali e una lunga campagna diplomatica condotta da Nelson Mandela che la Francia restituì la salma al Sudafrica. Il 6 maggio del 2002, due secoli dopo la sua nascita, le spoglie della donna tornarono nella valle del Gambia.



Saartjie Baartman chiusa in gabbia è una metafora dolorosa, potente e tragicamente attuale. Che dietro le sbarre ci sia il suo corpo per via della particolarità delle sue natiche o quello delle donne che Lea Melandri efficacemente chiama schiave radiose, poco cambia. Sempre di gabbia si tratta: sbarre dietro le quali il corpo della donna è umiliato, ridotto a oggetto di consumo e di scambio. Le stesse leggi che conducono a un uso sconsiderato della chirurgia estetica tale da rendere le persone assemblaggi di pezzi di ricambio, creature terrorizzate dall’eventualità sempre in agguato di una imminente rottamazione.

lunedì 1 luglio 2013

Storia di Giuliana - ultima parte


       «La sorella ha passato il limite della comune cortesia, è bandita da questa assemblea e non potrà ritornare. Mandatela fuori! Guardie! Buttatela fuori. Non merita di stare qui dentro!» Pronuncia queste parole Mojadedi, presidente della Loya Jirga, il Gran Consiglio afgano, e la sorella da buttare fuori è Malalai Joya, la donna che ha osato denunciare la presenza di “signori della guerra” all’interno del Parlamento. Era stata invitata come rappresentante di una provincia nella quale era molto nota per il suo impegno sociale. Per quel gesto e per le battaglie in difesa dei diritti delle donne rischia ogni giorno la vita, e per non rendersi riconoscibile indossa lo stesso burqa che in molte hanno trovato il coraggio di sfilarsi dopo aver ascoltato le sue parole. 
Il libro nel quale Joya (che non è il vero nome dell’autrice e in afgano significa “cercare”) racconta la sua storia, ha un titolo eloquente: Finché avrò voce. E la voce è quella di donna scomoda, indubbiamente. Non sta zitta come si conviene al suo genere, denuncia, si espone, esprime pareri in un paese nel quale il presidente Karzai ha firmato, nel 2010, una legge che permette agli uomini di proibire, qualora lo desiderino,  il ricovero in ospedale delle mogli.
Dove l’integralismo religioso è più potente, esistono tradizioni retrive all’interno delle quali la violenza prospera. Tuttavia, a prescindere dal luogo, per ogni donna, in ogni paese, di qualunque religione e cultura, il dolore è sempre uguale. Impastato di costrizione, fuso nel silenzio, mescolato alla rabbia, carico di vergogna, amalgamato all’impotenza.
Quel qualcosa di nuovo pronunciato da Giuliana al termine della sua testimonianza, quel qualcosa che l’ha spinta a uscire dalla finestra, ha a che fare con il rispetto: un sentimento fondamentale per riconoscere diritti e dignità alle persone. Una finestra che non è solo lo spazio dal quale lei, insieme ai suoi figli, è fuggita, ma è una metafora sulle aperture, sulle vie di fuga che è necessario cercare. A volte nascono spontanee dentro di noi dopo aver accumulato una serie di costrizioni: la misura è colma e d’improvviso è come se potessimo vedere lucidamente ciò che prima era opaco. Quando quel velo cade, da sole riusciamo a recidere le sbarre che ci tenevano imprigionate. Talvolta invece è necessario un aiuto esterno: siamo al limite della sopportazione, ma non abbiamo la forza di arrampicarci fuori dal gorgo nel quale siamo precipitate. Può essere accaduto all’improvviso, può essere invece che giorno per giorno, una parte minima di libertà venga rosicchiata mentre sedimentano costrizioni e la violenza si traveste di normalità. E’ la situazione più pericolosa, perché impieghiamo più tempo ad accorgercene. Allora è fondamentale chiedere aiuto, che sia un’amica, un familiare, un medico di base che può fornire le prime indicazioni, i servizi sociali, o un centro antiviolenza. Da qualche parte bisogna partire e in qualche modo bisogna iniziare affinché qualcuno possa aiutarci a sbrogliare la matassa nella quale siamo impigliate. Farcela da soli, farcela con l’aiuto di qualcun altro, farcela subito o dopo un po’, la cosa importante è uscire dagli scantinati della follia di una vita nella quale un aguzzino tiene le chiavi. Gliele avevamo consegnate noi stesse? Per ingenuità, per un malriposto concetto di amore, per alleggerirci poiché talvolta sono pesanti da tenere?
Può essere. Ma non importa. Ciò che conta è riprendersele.










mercoledì 26 giugno 2013

Storia di Giuliana - quarta parte



I numeri che si raggiungono sommando i dati che riguardano la violenza femminile sia in Italia che all’estero sono raccapriccianti, e sempre approssimativi perché il silenzio è ingombrante. Rekha Khalindi, indiana di dodici anni, ha osato sfidare la tradizione delle spose bambine. Aberrazione frequente quella del matrimonio tra una bambina e un uomo avanti negli anni, favorita dal fatto che in India più è bassa l’età della sposa, minore è l’entità della dote da offrire alla famiglia dello sposo. La discrepanza di età fa sì che siano numerose le vedove adolescenti. Nel 2001, un censimento ne registrava in India 34 milioni, di cui, circa un terzo,  vivevano rinchiuse in edifici nei quali l’accesso agli uomini proibito.
 Un orrore che aveva denunciato la regista Deepa Mehta nel film Water (2005). La protagonista, Chuyia, una bambina di otto anni, quando muore l’uomo a cui era stata promessa, viene accompagnata dai genitori nella Casa delle vedove. Il film è ambientato nel 1938, ma racconta una storia ancora possibile ai giorni nostri. La protagonista simbolizza il destino che riguarda, secondo Amnesty International, ottanta milioni di preadolescenti costrette al matrimonio. La realizzazione del film venne bloccata perché i fondamentalisti indù avevano minacciato di morte sia la regista che le attrici. Fu poi terminato nello Sri Lanka: la denuncia delle mortificazioni di quell’umanità silenziosa e la messa in discussione di un fanatismo religioso che in quelle privazioni e mortificazioni prospera, aveva creato un intreccio ritenuto pericoloso.
La libertà di espressione, di parola, di denuncia è gravida di ostacoli ovunque. Basta pensare a cosa può accadere in Italia quando una donna decide di denunciare il suo stupratore. Franca Rame, che ha vissuto la devastante esperienza, ha scritto un monologo sullo stupro nel quale poliziotti, giudici e avvocati della parte avversa, violentano con le parole, una volta ancora – la vittima. Era il 1970, ma quell’orrore non possiamo ancora considerarlo archiviato. Figuriamoci cosa può accadere all’interno di culture nelle quali la donna è considerata alla stregua di un oggetto. Alla mercé di un uomo che decide se e quando e come può uscire di casa, con chi può parlare e cosa può pensare. 
Sara, coordinatrice di una struttura di accoglienza che ospita madri con minori, gestita dall'Associazione Mondo Donna di Bologna, mi racconta la storia di Farida nata in un piccolo paese del  Pakistan. All’età di vent’anni viene data in moglie a un uomo il quale, appena celebrato il matrimonio, si trasferisce in Italia lasciandola in una nuova  casa, lontana dal suo paese natale, con suoceri e cognati.
Amir, il marito, torna in Pakistan ogni sei mesi e dopo due anni comincia a maltrattare la moglie a causa delle lamentele dei familiari in merito alla cucina e alle pulizie non soddisfacenti e perché, cosa grave, Farida non è ancora  rimasta incinta. I rapporti sono molto tesi e tra le famiglie d’origine aleggiano malumori. Per tradizione, se una moglie non dà alla luce un figlio può essere ripudiata e allontanata dal tetto coniugale, permettendo così al marito di risposarsi. Al terzo anno di matrimonio Farida rimane incinta, ma è solo alla nascita del secondo figlio, che Amir comincia ad avviare le pratiche di ricongiungimento per far venire la famiglia in Italia.  In seguito, arriveranno anche due fratelli di Amir.  Farida deve occuparsi delle faccende domestiche, servire gli uomini, prendersi cura dei  figli. Non può uscire per fare la spesa, né parlare con estranei: lo spazio nel quale può transitare è quello circoscritto all’appezzamento di terreno comprato dal  marito. Tre anni dopo l’arrivo in Italia, non conosce una sola parola della nostra lingua e la famiglia vive in una casa dove il tempo e lo spazio sembrano sospesi in un non-luogo, un limbo tra il paese d’origine e quello d’arrivo. Le botte sono la modalità con la quale Amir - spalleggiato e sostenuto dai fratelli - “educa” la moglie  e i bambini. La prima volta in cui Farida esasperata, prova a ribellarsi, lui la colpisce con un bastone provocandole profonde ferite. E’ l’autista del pullman che accompagna i figli a scuola a notare lo stato della donna e, dopo la sua denuncia ai servizi sociali, lei e i bambini verranno condotti in strutture protette.
Quel che emerge da questa vicenda è che la condizione di isolamento vissuta in un paesino sperduto del Pakistan si può riprodurre ovunque. Isolamento che in un contesto culturale nel quale la donna è considerata non un soggetto, ma oggetto asservito alla legge del padre prima, e del marito poi, favorisce l’insorgere di atti di violenza. Tra le donne che vengono prese in carico, insieme ai loro figli, dai servizi sociali, c’è chi coglie questa opportunità imparando un lavoro, intrecciando una rete di relazioni che le aiuta ad avviare un percorso verso l’autonomia. Mentre altre, conclude Sara, «non è infrequente che decidano di tornare con l’uomo che le picchiava, come se la violenza e le prevaricazioni subìte in una vita che ha le sembianze di una schiavitù, fossero comunque meno spaventose che stringere le redini di una vita libera».
(continua)

giovedì 20 giugno 2013

Storia di Giuliana - terza parte



Intanto, le notizie che dai media giungono su questo tema sono tutt’altro che rassicuranti. In Libano, il Parlamento si propone (gennaio 2012), attraverso la modifica di un disegno di legge, di negare alla donna la protezione dalla violenza domestica. Sono stati depennati dalla bozza lo stupro coniugale e la violenza verbale ed economica. In Arabia Saudita, paese nel quale una donna non trova un taxi su cui salire a meno che non sia accompagnata dal padre, marito o fratello, Manal - al - Sherif è stata in prigione per una decina di giorni per aver violato il divieto di guida. Sull’onda di questo caso, numerose donne saudite, per protesta e solidarietà, hanno guidato da sole, rendendo poi pubblico il gesto attraverso un video sul web. Sono i primi segnali di una ribellione che avrà bisogno di un lungo tempo prima che i suoi effetti siano conclamati. Infatti, è dello stesso periodo la notizia che Shayma Jastaniah, fermata alla guida della sua auto a Jeddah, nonostante il possesso di una patente internazionale, sia stata condannata a subire dieci frustate.
E’ venuta in Italia, nel gennaio 2012, Rachida Manjoo, giurista sudafricana e relatrice indipendente incaricata dal Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, per esaminare come viene affrontato il problema della violenza. Riferendosi a quella domestica sottolinea che «è doverosa una sensibilizzazione forte perché questa violenza non viene ancora percepita come un reato o un danno, e viene troppe volte considerata normale all’interno della famiglia», e aggiunge: «se nella società e nei media la donna viene rappresentata in maniera riduttiva e viene considerata esclusivamente come oggetto sessuale o come madre, si crea un terreno fertile per discriminazione e violenza di genere».
«Quel mattino i bambini erano turbolenti: nessuna attività catturava il loro interesse, nessun gioco li teneva quieti. Dal canto mio, avrei desiderato solo dormire. Non era puramente stanchezza, era il torpore di chi ha smarrito la speranza, la rassegnazione di chi non immagina un altro modo di vivere. Peggio: di chi pensa che non può meritarsi di meglio. Presi il cellulare per telefonare a mia madre: sapeva delle nostre crisi, ma non conosceva la verità. Avrei voluto solo chiacchierare un po’. Non avevo più credito: da alcuni giorni avevo chiesto a mio marito di ricaricarlo, ma “si dimenticava” sempre. Mi osservai dall’esterno: ero una giovane donna, con un futuro da vivere, segregata in casa.
Non so poi se abbia inciso anche il fatto che la sera prima avevo visto un film che amavo molto: Qualcuno volò sul nido del cuculo (i film non rientravano in alcun divieto, purché si vedessero in casa). Quel mattino avevo impressa l’immagine di Bromden, uno dei protagonisti, il Capo indiano che si finge sordomuto. Nella parte finale del film, lui e l’altro protagonista - Jack Nicholson -  decidono di fuggire dalla clinica psichiatrica. Bromden solleva un lavandino di marmo, è pesantissimo, lo deve scardinare dal pavimento. Un lungo primo piano sul suo volto riprende la fatica che compie nel sollevarlo, poi - con una determinazione coltivata durante la lunga permanenza nell’ospedale psichiatrico - lo lancia contro una porta-finestra, e fugge.
Probabilmente fu una casualità, di fatto realizzai in quel momento che abitavamo al primo piano. Scavalcai il balcone, suonai il campanello dei vicini di casa - furono gentili, mi permisero di telefonare a mia madre. Non le diedi molte spiegazioni, le domandai se sarebbe stata disposta a pagare il costo di un lungo tragitto in  taxi. Rientrai dal balcone, preparai le valigie con l’essenziale, non persi tempo a guardarmi intorno. Scavalcai di nuovo: con i bambini fu più complesso ma pensarono fosse un nuovo gioco. No, non si trattava di un gioco, ma qualcosa di nuovo era».
(continua)