giovedì 20 giugno 2013

Storia di Giuliana - terza parte



Intanto, le notizie che dai media giungono su questo tema sono tutt’altro che rassicuranti. In Libano, il Parlamento si propone (gennaio 2012), attraverso la modifica di un disegno di legge, di negare alla donna la protezione dalla violenza domestica. Sono stati depennati dalla bozza lo stupro coniugale e la violenza verbale ed economica. In Arabia Saudita, paese nel quale una donna non trova un taxi su cui salire a meno che non sia accompagnata dal padre, marito o fratello, Manal - al - Sherif è stata in prigione per una decina di giorni per aver violato il divieto di guida. Sull’onda di questo caso, numerose donne saudite, per protesta e solidarietà, hanno guidato da sole, rendendo poi pubblico il gesto attraverso un video sul web. Sono i primi segnali di una ribellione che avrà bisogno di un lungo tempo prima che i suoi effetti siano conclamati. Infatti, è dello stesso periodo la notizia che Shayma Jastaniah, fermata alla guida della sua auto a Jeddah, nonostante il possesso di una patente internazionale, sia stata condannata a subire dieci frustate.
E’ venuta in Italia, nel gennaio 2012, Rachida Manjoo, giurista sudafricana e relatrice indipendente incaricata dal Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, per esaminare come viene affrontato il problema della violenza. Riferendosi a quella domestica sottolinea che «è doverosa una sensibilizzazione forte perché questa violenza non viene ancora percepita come un reato o un danno, e viene troppe volte considerata normale all’interno della famiglia», e aggiunge: «se nella società e nei media la donna viene rappresentata in maniera riduttiva e viene considerata esclusivamente come oggetto sessuale o come madre, si crea un terreno fertile per discriminazione e violenza di genere».
«Quel mattino i bambini erano turbolenti: nessuna attività catturava il loro interesse, nessun gioco li teneva quieti. Dal canto mio, avrei desiderato solo dormire. Non era puramente stanchezza, era il torpore di chi ha smarrito la speranza, la rassegnazione di chi non immagina un altro modo di vivere. Peggio: di chi pensa che non può meritarsi di meglio. Presi il cellulare per telefonare a mia madre: sapeva delle nostre crisi, ma non conosceva la verità. Avrei voluto solo chiacchierare un po’. Non avevo più credito: da alcuni giorni avevo chiesto a mio marito di ricaricarlo, ma “si dimenticava” sempre. Mi osservai dall’esterno: ero una giovane donna, con un futuro da vivere, segregata in casa.
Non so poi se abbia inciso anche il fatto che la sera prima avevo visto un film che amavo molto: Qualcuno volò sul nido del cuculo (i film non rientravano in alcun divieto, purché si vedessero in casa). Quel mattino avevo impressa l’immagine di Bromden, uno dei protagonisti, il Capo indiano che si finge sordomuto. Nella parte finale del film, lui e l’altro protagonista - Jack Nicholson -  decidono di fuggire dalla clinica psichiatrica. Bromden solleva un lavandino di marmo, è pesantissimo, lo deve scardinare dal pavimento. Un lungo primo piano sul suo volto riprende la fatica che compie nel sollevarlo, poi - con una determinazione coltivata durante la lunga permanenza nell’ospedale psichiatrico - lo lancia contro una porta-finestra, e fugge.
Probabilmente fu una casualità, di fatto realizzai in quel momento che abitavamo al primo piano. Scavalcai il balcone, suonai il campanello dei vicini di casa - furono gentili, mi permisero di telefonare a mia madre. Non le diedi molte spiegazioni, le domandai se sarebbe stata disposta a pagare il costo di un lungo tragitto in  taxi. Rientrai dal balcone, preparai le valigie con l’essenziale, non persi tempo a guardarmi intorno. Scavalcai di nuovo: con i bambini fu più complesso ma pensarono fosse un nuovo gioco. No, non si trattava di un gioco, ma qualcosa di nuovo era».
(continua)

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