mercoledì 14 maggio 2014

I manicomi (ultima parte)

          L’ex Ospedale Psichiatrico di Racconigi è chiuso al pubblico a causa dell’incuria del tempo che ha reso pericolanti i padiglioni, e l’ente proprietario dell’immobile non dispone delle risorse economiche necessarie per una ristrutturazione. Camminando nei viali che circondano i vecchi edifici lo sguardo viene catturato dalle finestre sigillate con dei mattoni: misura drastica, adottata in seguito al fatto che il divieto di ingresso per motivi di sicurezza non veniva rispettato; in passato, la reclusione in quei padiglioni era interna, non si poteva uscirne, oggi non si può entrare. Solo uno di questi è ancora agibile, e attraversare quelle stanze sapendo di calpestare un pavimento sul quale tanto dolore si è trascinato, è un’esperienza forte. Almeno, per me lo è stata. Non so dire quanto abbia inciso la suggestione della luce opaca di un pomeriggio di pioggia, di fatto il materiale poroso dei muri di quelle stanze enormi sembra trasudare gli odori del tempo. E i lamenti della follia nella ripetizione dei deliri sembrano risuonare senza pace. Il mio sguardo che oltrepassa una finestra posandosi sull’edera avvitata su se stessa, segue forse la stessa traiettoria di altri sguardi, in altri tempi. Ci sono, in questi luoghi polverosi, dagli infissi arrugginiti, ragnatele così fitte che sembrano aver intrappolato il senso di impotenza, la vergogna, il dolore, l’oblio, le rabbie - indicibili o urlabili in modo sconnesso - degli uomini e delle donne che vi erano richiusi.
Non dimentichiamo che durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale il numero dei ricoveri è cresciuto, sia per coloro che alla guerra erano sopravvissuti fisicamente, ma non emotivamente, sia per le donne che, a casa, macinavano una povertà ancora più cruda di quanto già non fosse consueto. Senza contare che le partenze per il fronte erano a volte non solo prive di ritorno, ma prive anche di un corpo sul quale piangere quell’assenza; si viveva inoltre quotidianamente con la tensione di ciò che di drammatico poteva accadere in ogni istante.  Erano tempi nei quali  la ricerca non aveva compiuto i progressi che sono poi stati fruibili nei decenni successivi attraverso farmaci in grado di alleggerire e contenere le manifestazioni di numerose patologie. Tempi nei quali le terapie psicologiche erano appannaggio esclusivo di persone appartenenti a ceti economicamente e culturalmente elevati. La malattia mentale era qualcosa di più oscuro di quanto lo sia oggi, e le condizioni sociali, ambientali, sanitarie, facevano sì che il numero di persone ricoverate in ogni struttura fosse alto. Talmente alto che una prassi consolidata era quella di costruire i manicomi in modo tale che chi “faceva la guardia” ai malati, potesse avere dal corridoio una visione completa di due stanze contemporaneamente. 
Immagino quei cameroni pieni di persone: qualcuno cammina da anni avanti e indietro sulle stesse piastrelle, qualcun altro sta seduto senza speranza e senza memoria su uno sgabello duro; qualcuno parla al vuoto dentro e fuori di sé, privo di stupore per una risposta che non arriva mai; qualcun altro, di fronte a un dolore che non poteva sostenere, ha mollato gli ormeggi della psiche lasciandosi trascinare non importa dove. Fra di loro, mi sembra di intravedere il volto di una donna che assomiglia a quello di Janet Frame. Anche i capelli sono ricci come quelli della scrittrice neozelandese (1924-2004), ricoverata in manicomio a causa di una errata diagnosi di schizofrenia, e poi scampata alla lobotomia perché il medico che stava per effettuarla lesse di un premio appena vinto dalla scrittrice. Quel riconoscimento fermò la sua mano. La donna che mi pare di intravedere in quelle stanze è tutte le donne che non avevano mai vinto un premio di scrittura o altro, che non appartenevano a famiglie in grado di fronteggiare un periodo di crisi con adeguate cure, ma provenivano magari da nuclei i cui componenti non si facevano scrupolo di lasciare un consanguineo rinchiuso, se questo significava potersi accaparrare la sua eredità. Famiglie che con la complicità di alcuni medici hanno abbandonato troppe persone, in genere donne, in manicomio. Donne che attraverso lo spregio quotidiano della parola giustizia, sono state recluse fino alla morte.