Mi ha sempre
incuriosito la quotidianità della vita in un convento: quanto possa essere
protettivo il susseguirsi delle giornate scandito da ritmi sempre uguali.
Infatti, una delle prime domande che ho posto a Irma, riguarda proprio la
struttura delle attività di ogni giorno.
«La
vita quotidiana in monastero l’ho sempre paragonata a un mantra, a una griglia
fissa di orari, incombenze, che permettono di innalzare lo sguardo, non avendo
preoccupazione per le cose quotidiane. Non bisogna decidere, né scegliere:
esiste un ritmo di preghiera, lavoro, preghiera, lavoro, preghiera, pranzo,
solitudine, preghiera, cena, solitudine. Per trecentosessantacinque giorni
l’anno. E’ un ritmo che ha un che di riposante, e che permette di coltivare il rapporto con Dio, con il Cristo, in un
susseguirsi di gesti e riti sempre uguali, ciclici. E’ questa la cosa
meravigliosa di una vita claustrale: il contatto diretto con il mistero
attraverso la liturgia, che dà allo scorrere del tempo, un senso, un disegno,
una direzione.
Ho vissuto in monasteri
che coltivavano la bellezza, e dentro i quali la liturgia era celebrata,
cantata. Quel che sottolineo oggi però, è che mancava un aspetto fondamentale.
Mancava il corpo. La liturgia avrebbe dovuto poter essere anche danzata per
essere completa, perché tutto il corpo potesse partecipare alla gioia. Che
gioia è se il corpo non si muove? Gli ebrei danzavano i salmi, Davide il folle
danzava davanti all’arca di Dio, la sorella di Mosè, la profetessa, danzava
all’apertura del Mar Rosso. Noi, invece, cantiamo immobili in una postura
rigida che spacca in due il nostro essere: tutta l’energia concentrata in alto,
nella testa, nello spirito, mentre il corpo si svuota, il centro vitale si
impoverisce, si ammala. Eppure, potrebbe essere una bella forma di vita: non
c’è da pensare all’affitto, al cibo. La sveglia alle 5,30, il buio fuori, il
silenzio, queste figure scure che indossano abiti sempre uguali, neri,
coprenti, che avanzano nei corridoi dove i loro passi riecheggiano verso la
cucina: questo rito del caffè mattutino, deliziosamente umano. Poi in cappella,
per la meditazione, la preghiera e dopo, il lavoro, che cambia a seconda dei
monasteri: lavanderia, cucito, icone, cucina, portineria, orto. In silenzio. Mi
è rimasto addosso l’uso parco delle parole, una propensione a non perdere tempo
con ciò che non è necessario».
“Il racconto di
un’esperienza spaesante”, così descrive Ferdinando Camon, la lettura del libro Sulle strade del silenzio. Viaggio nei
monasteri d’Italia di Giorgio Boatti, nella recensione che ha scritto su
Tuttolibri. E aggiunge: “Spaesante vuol dire che ti porta fuori dal tuo paese,
dentro un altro paese, fuori dal tuo tempo, dentro un altro tempo, fuori dalla
tua vita, dentro un’altra vita. Fuori dalla tua civiltà, dentro un’altra
civiltà”. In un continuo dentro/fuori privo di connessioni, ponti,
collegamenti. Nella storia di Irma, a un certo punto, l’altro tempo, l’altra
civiltà, l’altra vita, la sua vita,
si sono fatti urgenti, impellenti, hanno preteso di esistere. E lei è saltata fuori.
«La vita che vivo oggi è reale,
concreta, fatta - come si dice - di sangue e polvere. Sento la durezza, la
fatica, il sudore, l’incertezza, e l’estenuante ricerca individuale del mio
sentiero, senza facilitazioni, né scorciatoie. Questo è il mio luogo ora, la
mia casa. Un luogo nel quale continuo a essere liturgicamente dentro il
Mistero, che batte strade strane, non sempre ortodosse. Quando ero in
monastero, ero certa della mia identità, del mio ruolo, e della mia missione:
oggi li chiamo i miei alibi perfetti per nascondermi. Ero diventata
espertissima nel non farmi vedere, nello scomparire allo sguardo altrui. Così
brava che neanch’io mi vedevo più. E’ stato il lavoro più intenso in questi sei
anni: guardarmi di nuovo, ascoltarmi, espormi, non nascondermi. Ed è stato
difficile perché il nascondimento è proprio il tema della clausura, dunque ciò
che è avvenuto - per me - è stato semplicemente il cristallizzarsi di una
predisposizione».
Irma non ho potuto
incontrarla di persona. Gli impegni reciproci, la distanza geografica, hanno
reso impossibile ciò che desideravamo entrambe. Mentre scrivevo questa storia
mi domandavo se sarei riuscita a procedere priva di quell’energia creativa che
deriva da un incontro, e delle numerose sfumature che giungono dalla
comunicazione del corpo. Ma avevo sottovalutato la potenza della voce. Oltre
alla comunicazione via mail, ci siamo parlate al telefono, e il suono delle sue
parole ha sostituito il nostro incontro. Una voce autorevole e insieme
dolcissima, autentica. Una voce nel corpo, che così ha concluso la sua
testimonianza.
«Sono
uscita dal monastero un mattino di settembre: avevo quarantadue anni, ero senza
lavoro, senza denaro, ed esperienze professionali. Davanti a me, uno spaventoso
salto nel buio: ricominciare a vivere. Per anni avevo ascoltato i cuori altrui,
quel giorno iniziai a sentire il mio lasciando che le emozioni lo
attraversassero. Sperduta? Terrorizzata? Inadeguata? Non sapevo quale fosse la
sensazione più potente. Camminavo per le strade di quindici anni prima, e
quando incontravo volti conosciuti, sul mio si disegnavano l’ansia, la
vergogna, il fallimento. Li accettai: avevano il diritto di esistere. Un mese
dopo, grazie anche a uno dei misteriosi incroci della Provvidenza, avevo già
trovato un lavoro. Certo non è stato facile. Mi sentivo in ritardo su tutto,
avevo più di quarant’anni ed era come se fossi appena uscita dall’università.
Attraverso un’associazione che si occupava di teatro-danza per disabili, venni
a conoscenza della danza terapia, e io riconduco sempre a quel momento l’inizio
della nuova vita. Scoprii che il corpo parlava, che diceva cose più autentiche
della ragione. Bastava ascoltare, bastava sentire le sensazioni e le emozioni
che si rendono percepibili attraverso la pelle, gli organi, e che indicano in
modo chiaro ciò che fa bene e ciò che intossica. Naturalmente è stato
necessario un lungo lavoro per ridare suono alle corde di uno strumento a lungo
dimenticato, ma è stato esaltante, coinvolgente: un’apertura alla vita
spezzando la gabbia di identità fittizia nella quale mi ero volontariamente
rinchiusa. Dunque un corpo non più nemico e ricettacolo di pulsioni e
tentazioni, non la sede del male, un peso, o un animale selvatico da domare,
bensì un corpo attraverso il quale avevo la
possibilità di mettermi in gioco per gli altri; corpo come strumento di
una forte passione educativa che ho voglia di comunicare agli altri, nella
quale ho trovato quella soddisfazione dell’anima che si riposa sapendo di
vivere finalmente con spirito, anima e corpo integrati. Ora - finalmente - vivo
la totalità. Da quando ho smesso di raccontarmi che rinchiusa sto bene, mi
sento protetta. E se talvolta mi domando qual è - adesso - la mia missione, non
ho risposta, ma è proprio questa incertezza che lascia aperta la possibilità di
cercarla. E dopo tanta reclusione, nelle aperture respiro a fondo, e respiro
nella danza, quella danza che nella cultura religiosa cattolica ha ancora poca
residenza. Un giorno forse potrò dare in merito il mio contributo, o forse no.
Si vedrà. Lascio che accadano le cose, senza imprigionarle in certezze
inesistenti, in gabbie rigide, e se non trovo risposte non importa, il valore
sta nel viaggio stesso. Vivere questa vita - la mia - è la strada, adesso. E ci
danzo dentro».