venerdì 31 gennaio 2014

Le monache - storia di Irma - seconda parte

         Mi ha sempre incuriosito la quotidianità della vita in un convento: quanto possa essere protettivo il susseguirsi delle giornate scandito da ritmi sempre uguali. Infatti, una delle prime domande che ho posto a Irma, riguarda proprio la struttura delle attività di ogni giorno.
         «La vita quotidiana in monastero l’ho sempre paragonata a un mantra, a una griglia fissa di orari, incombenze, che permettono di innalzare lo sguardo, non avendo preoccupazione per le cose quotidiane. Non bisogna decidere, né scegliere: esiste un ritmo di preghiera, lavoro, preghiera, lavoro, preghiera, pranzo, solitudine, preghiera, cena, solitudine. Per trecentosessantacinque giorni l’anno. E’ un ritmo che ha un che di riposante, e che permette di coltivare  il rapporto con Dio, con il Cristo, in un susseguirsi di gesti e riti sempre uguali, ciclici. E’ questa la cosa meravigliosa di una vita claustrale: il contatto diretto con il mistero attraverso la liturgia, che dà allo scorrere del tempo, un senso, un disegno, una direzione.
Ho vissuto in monasteri che coltivavano la bellezza, e dentro i quali la liturgia era celebrata, cantata. Quel che sottolineo oggi però, è che mancava un aspetto fondamentale. Mancava il corpo. La liturgia avrebbe dovuto poter essere anche danzata per essere completa, perché tutto il corpo potesse partecipare alla gioia. Che gioia è se il corpo non si muove? Gli ebrei danzavano i salmi, Davide il folle danzava davanti all’arca di Dio, la sorella di Mosè, la profetessa, danzava all’apertura del Mar Rosso. Noi, invece, cantiamo immobili in una postura rigida che spacca in due il nostro essere: tutta l’energia concentrata in alto, nella testa, nello spirito, mentre il corpo si svuota, il centro vitale si impoverisce, si ammala. Eppure, potrebbe essere una bella forma di vita: non c’è da pensare all’affitto, al cibo. La sveglia alle 5,30, il buio fuori, il silenzio, queste figure scure che indossano abiti sempre uguali, neri, coprenti, che avanzano nei corridoi dove i loro passi riecheggiano verso la cucina: questo rito del caffè mattutino, deliziosamente umano. Poi in cappella, per la meditazione, la preghiera e dopo, il lavoro, che cambia a seconda dei monasteri: lavanderia, cucito, icone, cucina, portineria, orto. In silenzio. Mi è rimasto addosso l’uso parco delle parole, una propensione a non perdere tempo con ciò che non è necessario».
         “Il racconto di un’esperienza spaesante”, così descrive Ferdinando Camon, la lettura del libro Sulle strade del silenzio. Viaggio nei monasteri d’Italia di Giorgio Boatti, nella recensione che ha scritto su Tuttolibri. E aggiunge: “Spaesante vuol dire che ti porta fuori dal tuo paese, dentro un altro paese, fuori dal tuo tempo, dentro un altro tempo, fuori dalla tua vita, dentro un’altra vita. Fuori dalla tua civiltà, dentro un’altra civiltà”. In un continuo dentro/fuori privo di connessioni, ponti, collegamenti. Nella storia di Irma, a un certo punto, l’altro tempo, l’altra civiltà, l’altra vita, la sua vita, si sono fatti urgenti, impellenti, hanno preteso di esistere. E lei è saltata fuori.
          «La vita che vivo oggi è reale, concreta, fatta - come si dice - di sangue e polvere. Sento la durezza, la fatica, il sudore, l’incertezza, e l’estenuante ricerca individuale del mio sentiero, senza facilitazioni, né scorciatoie. Questo è il mio luogo ora, la mia casa. Un luogo nel quale continuo a essere liturgicamente dentro il Mistero, che batte strade strane, non sempre ortodosse. Quando ero in monastero, ero certa della mia identità, del mio ruolo, e della mia missione: oggi li chiamo i miei alibi perfetti per nascondermi. Ero diventata espertissima nel non farmi vedere, nello scomparire allo sguardo altrui. Così brava che neanch’io mi vedevo più. E’ stato il lavoro più intenso in questi sei anni: guardarmi di nuovo, ascoltarmi, espormi, non nascondermi. Ed è stato difficile perché il nascondimento è proprio il tema della clausura, dunque ciò che è avvenuto - per me - è stato semplicemente il cristallizzarsi di una predisposizione».
          Irma non ho potuto incontrarla di persona. Gli impegni reciproci, la distanza geografica, hanno reso impossibile ciò che desideravamo entrambe. Mentre scrivevo questa storia mi domandavo se sarei riuscita a procedere priva di quell’energia creativa che deriva da un incontro, e delle numerose sfumature che giungono dalla comunicazione del corpo. Ma avevo sottovalutato la potenza della voce. Oltre alla comunicazione via mail, ci siamo parlate al telefono, e il suono delle sue parole ha sostituito il nostro incontro. Una voce autorevole e insieme dolcissima, autentica. Una voce nel corpo, che così ha concluso la sua testimonianza.
           «Sono uscita dal monastero un mattino di settembre: avevo quarantadue anni, ero senza lavoro, senza denaro, ed esperienze professionali. Davanti a me, uno spaventoso salto nel buio: ricominciare a vivere. Per anni avevo ascoltato i cuori altrui, quel giorno iniziai a sentire il mio lasciando che le emozioni lo attraversassero. Sperduta? Terrorizzata? Inadeguata? Non sapevo quale fosse la sensazione più potente. Camminavo per le strade di quindici anni prima, e quando incontravo volti conosciuti, sul mio si disegnavano l’ansia, la vergogna, il fallimento. Li accettai: avevano il diritto di esistere. Un mese dopo, grazie anche a uno dei misteriosi incroci della Provvidenza, avevo già trovato un lavoro. Certo non è stato facile. Mi sentivo in ritardo su tutto, avevo più di quarant’anni ed era come se fossi appena uscita dall’università. Attraverso un’associazione che si occupava di teatro-danza per disabili, venni a conoscenza della danza terapia, e io riconduco sempre a quel momento l’inizio della nuova vita. Scoprii che il corpo parlava, che diceva cose più autentiche della ragione. Bastava ascoltare, bastava sentire le sensazioni e le emozioni che si rendono percepibili attraverso la pelle, gli organi, e che indicano in modo chiaro ciò che fa bene e ciò che intossica. Naturalmente è stato necessario un lungo lavoro per ridare suono alle corde di uno strumento a lungo dimenticato, ma è stato esaltante, coinvolgente: un’apertura alla vita spezzando la gabbia di identità fittizia nella quale mi ero volontariamente rinchiusa. Dunque un corpo non più nemico e ricettacolo di pulsioni e tentazioni, non la sede del male, un peso, o un animale selvatico da domare, bensì un corpo attraverso il quale avevo la  possibilità di mettermi in gioco per gli altri; corpo come strumento di una forte passione educativa che ho voglia di comunicare agli altri, nella quale ho trovato quella soddisfazione dell’anima che si riposa sapendo di vivere finalmente con spirito, anima e corpo integrati. Ora - finalmente - vivo la totalità. Da quando ho smesso di raccontarmi che rinchiusa sto bene, mi sento protetta. E se talvolta mi domando qual è - adesso - la mia missione, non ho risposta, ma è proprio questa incertezza che lascia aperta la possibilità di cercarla. E dopo tanta reclusione, nelle aperture respiro a fondo, e respiro nella danza, quella danza che nella cultura religiosa cattolica ha ancora poca residenza. Un giorno forse potrò dare in merito il mio contributo, o forse no. Si vedrà. Lascio che accadano le cose, senza imprigionarle in certezze inesistenti, in gabbie rigide, e se non trovo risposte non importa, il valore sta nel viaggio stesso. Vivere questa vita - la mia - è la strada, adesso. E ci danzo dentro».



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