C’è una fiaba che racconta bene come la bellezza del
tempo sia data da ritmi meno pressanti di quelli che solitamente
pratichiamo. Non ricordo più dove l’ho letta, o se
mi sia stata raccontata, ricordo però che narra la storia di
un uomo che doveva raggiungere un luogo per il quale era
necessario attraversare il deserto. Chiese aiuto agli aborigeni
australiani che conoscevano bene il territorio e gli
avrebbero fatto da guida. Si misero in cammino. L’uomo li
seguiva, si fermava quando loro decidevano che era giunto
il momento di mangiare, e dormiva quando preparavano
il fuoco vicino alle tende. Proseguirono il viaggio per
parecchi giorni poi, senza una parola, né una spiegazione,
d’un tratto, a metà di un pomeriggio qualunque, gli aborigeni
si fermarono.
«Cosa succede? Perché ci fermiamo?».
Silenzio.
«Dobbiamo rimetterci in cammino, non possiamo fermarci,
io ho un appuntamento importante».
Silenzio.
Gli aborigeni tacevano e l’uomo era disperato: non conosceva
il deserto e non poteva proseguire il cammino da
solo.
Trascorsero tre giorni di silenzio assoluto quando,
d’improvviso, si rimisero in viaggio. Subito l’uomo non
osò domandare nulla, per timore che si indispettissero e interrompessero
di nuovo il cammino, ma dopo un po’– visto che procedevano a passo spedito– osò chiedere: «Come mai ci siamo fermati e perché ora siamo ripartiti?».
«Perché avevamo corso troppo in fretta e avevamo perso
per strada la nostra anima– ora – lei ci ha di nuovo raggiunti».
Quando siamo alle prese con un nuovo progetto, quando
diventiamo genitori, quando iniziamo qualcosa di nuovo,
è probabile che veniamo fagocitati. Del resto, nelle varie
stagioni della vita – perché è di questo che parliamo
quando parliamo di tempo, della nostra vita, dal nascere al
morire -, è naturale che esista un’alternanza di ritmi, di
cose che si chiudono perché hanno concluso il loro ciclo, o
il loro senso, mentre altre si aprono. Di fronte al nuovo
tendiamo tutti a correre un po’, a investire tempo ed energie.
È naturale e bene che sia così, ma dobbiamo ricordare
anche un tempo dell’anima, un tempo più interiore, un
tempo dell’ascolto di noi.
Un tempo che accompagna le varie stagioni della vita
rispettando la loro differenza, la loro peculiarità. Un tempo
che scorre e attraversa, dalla nascita alla morte.
martedì 1 ottobre 2013
sabato 31 agosto 2013
Il dolore del corpo
Venera
Nera
(2010) è un film del regista Abdellatif Kechiche: un pugno nello stomaco che
richiede lungo tempo per essere smaltito. Narra la storia di Saartjie Baartman
(1789 - 1815), nata in un villaggio della valle del Gambia, divenuta schiava di
una famiglia di Città del Capo. Portata in Inghilterra, esibita come un fenomeno
da baraccone in infimi
spettacoli, compariva chiusa in una gabbia, o
tenuta a un collare che il suo “padrone” metteva e toglieva secondo il
grado di timore che voleva suscitare tra il pubblico per la presunta
pericolosità della donna, soprannominata la Venere ottentotta. La storia si snoda lungo un percorso infernale
nel quale il suo corpo viene esposto a un pubblico invitato a palpeggiare la
consistenza della sua carne e a sfidarne la presunta “selvaticità”.
Il film gioca
molto sui primi piani del suo volto ed è sconvolgente il dolore che si legge
nel pozzo dei suoi occhi, a cui fanno da contraltare le risate sguaiate degli
spettatori. La solitudine cresce di pari passo con la rabbia, ma quest’ultima è
priva di quella forza che sarebbe utile a Saartjie
Baartman: è una rabbia impotente. Infatti,
quando un’associazione umanitaria denuncia il suo caso, nel corso del
processo che ha lo scopo di stabilire se la donna sia una vittima o una
simulatrice consenziente, Saaertjie confermerà la versione dell’uomo che la
tiene schiava.
La lunga
esperienza di sottomissione ha già irreparabilmente intaccato la sua volontà, e
quell’unica ciambella a cui avrebbe potuto aggrapparsi si è allontanata per sempre.
Dopo gli spettacoli, arriva il tempo dei bordelli, quindi della malattia (la tisi
o la sifilide, non si sa) che la condurranno, a soli venticinque anni, alla
morte.
Mentre sullo
schermo scorrevano le immagini del processo speravo di assistere alla sua
ribellione: una speranza delusa quando Saartjie
testimonia in favore del suo aguzzino. Sulla faccia, la stessa espressione di
quelle donne che, arrivate peste in qualunque pronto soccorso, raccontano di
essere cadute dalle scale.
Verso la fine della storia, c’è un
passaggio nel quale la donna dovrebbe essere osservata dai naturalisti
francesi, perché la forma delle sue natiche e delle sue labbra vaginali
costituiscono interesse per uno studio che dovrebbe dimostrare l’inferiorità
biologica di alcune razze umane. Per questo gli scienziati hanno pagato
un’ingente somma al suo “padrone”. C’è lei, dunque, contornata da uomini che la
osservano come un reperto inanimato. Inizialmente ha le sembianze di un
fantoccio: l’abitudine a restare chiusa in una gabbia è oramai consolidata. Ma
qualcosa succede all’improvviso: uno sguardo, una postura, un gesto che le
donano una vitalità impensata. E quando le chiedono di togliersi l’ultimo lembo
di stoffa che le copre i genitali, Saartjie rifiuta,
e fugge.
A quel punto
del film ho pensato che in tribunale non era riuscita a raccontare la verità,
ma forse quel rifiuto avrebbe potuto finalmente imprimere un corso diverso alla
sua storia. Non è andata così: il tentativo di opporsi a quell’ennesima
umiliazione viene respinto con schiaffi e pugni di inusitata violenza.
Annientata nella dignità, sopraffatta dal dolore, la protagonista si inabissa
nell’alcool.
Una volta
morta, il corpo verrà ricondotto nello stesso luogo in cui Saaertjie aveva
pronunciato il suo unico no. E ancora una volta i naturalisti - tra i quali lo
scienziato Georges Cuvier - possono abbandonarsi allo scempio: guardano,
toccano, invadono, analizzano.
Fu solo attraverso cause legali e una lunga
campagna diplomatica condotta da Nelson Mandela che la Francia restituì la salma
al Sudafrica. Il 6 maggio del 2002, due secoli dopo la sua nascita, le spoglie
della donna tornarono nella valle del Gambia.
Saartjie
Baartman chiusa in gabbia è una metafora dolorosa, potente e tragicamente
attuale. Che dietro le sbarre ci sia il suo corpo per via della particolarità
delle sue natiche o quello delle donne che Lea Melandri efficacemente chiama schiave
radiose, poco cambia. Sempre di gabbia si tratta: sbarre dietro le quali il
corpo della donna è umiliato, ridotto a oggetto di consumo e di scambio. Le
stesse leggi che conducono a un uso sconsiderato della chirurgia estetica tale
da rendere le persone assemblaggi di pezzi di ricambio, creature terrorizzate
dall’eventualità sempre in agguato di una imminente rottamazione.
lunedì 1 luglio 2013
Storia di Giuliana - ultima parte
«La
sorella ha passato il limite della comune cortesia, è bandita da questa
assemblea e non potrà ritornare. Mandatela fuori! Guardie! Buttatela fuori. Non
merita di stare qui dentro!» Pronuncia queste parole Mojadedi, presidente della
Loya Jirga, il Gran Consiglio afgano, e la sorella da buttare fuori è Malalai
Joya, la donna che ha osato denunciare la presenza di “signori della guerra”
all’interno del Parlamento. Era stata invitata come rappresentante di una provincia
nella quale era molto nota per il suo impegno
sociale. Per quel gesto e per le battaglie in difesa dei diritti delle donne
rischia ogni giorno la vita, e per non rendersi riconoscibile indossa lo stesso
burqa che in molte hanno trovato il coraggio di sfilarsi dopo aver ascoltato le
sue parole.
Il libro nel quale Joya
(che non è il vero nome dell’autrice e in afgano significa “cercare”) racconta
la sua storia, ha un titolo eloquente: Finché avrò voce. E la voce è quella di
donna scomoda, indubbiamente. Non sta zitta come si conviene al suo genere,
denuncia, si espone, esprime pareri in un paese nel quale il presidente Karzai
ha firmato, nel 2010, una legge che permette agli uomini di proibire, qualora
lo desiderino, il ricovero in ospedale delle
mogli.
Dove l’integralismo religioso è più
potente, esistono tradizioni retrive all’interno delle quali la violenza prospera.
Tuttavia, a prescindere dal luogo, per ogni donna, in ogni paese, di qualunque
religione e cultura, il dolore è sempre uguale. Impastato di costrizione, fuso
nel silenzio, mescolato alla rabbia, carico di vergogna, amalgamato
all’impotenza.
Quel qualcosa di nuovo pronunciato da Giuliana al termine della sua
testimonianza, quel qualcosa che l’ha spinta a
uscire dalla finestra, ha a che fare con il rispetto: un sentimento
fondamentale per riconoscere diritti e dignità alle persone. Una finestra che
non è solo lo spazio dal quale lei, insieme ai suoi figli, è fuggita, ma è una
metafora sulle aperture, sulle vie di fuga che è necessario cercare. A volte
nascono spontanee dentro di noi dopo aver accumulato una serie di costrizioni:
la misura è colma e d’improvviso è come se potessimo vedere lucidamente ciò che
prima era opaco. Quando quel velo cade, da
sole riusciamo a recidere le sbarre che ci tenevano imprigionate. Talvolta
invece è necessario un aiuto esterno: siamo al limite della sopportazione, ma
non abbiamo la forza di arrampicarci fuori dal gorgo nel quale siamo
precipitate. Può essere accaduto all’improvviso, può essere invece che giorno
per giorno, una parte minima di libertà venga rosicchiata mentre sedimentano
costrizioni e la violenza si traveste di normalità. E’ la situazione più
pericolosa, perché impieghiamo più tempo ad accorgercene. Allora è fondamentale
chiedere aiuto, che sia un’amica, un familiare, un medico di base che può
fornire le prime indicazioni, i servizi sociali, o un centro antiviolenza. Da
qualche parte bisogna partire e in qualche modo bisogna iniziare affinché
qualcuno possa aiutarci a sbrogliare la matassa nella quale siamo impigliate.
Farcela da soli, farcela con l’aiuto di qualcun altro, farcela subito o dopo un
po’, la cosa importante è uscire dagli scantinati della follia di una vita
nella quale un aguzzino tiene le chiavi. Gliele avevamo consegnate noi stesse?
Per ingenuità, per un malriposto concetto di amore, per alleggerirci poiché
talvolta sono pesanti da tenere?
Può essere. Ma non importa. Ciò che
conta è riprendersele.
mercoledì 26 giugno 2013
Storia di Giuliana - quarta parte
I numeri che si raggiungono sommando
i dati che riguardano la violenza femminile sia in Italia che all’estero sono
raccapriccianti, e sempre approssimativi perché il silenzio è ingombrante.
Rekha Khalindi, indiana di dodici anni, ha osato sfidare la tradizione delle
spose bambine. Aberrazione frequente quella del matrimonio tra una bambina e un
uomo avanti negli anni, favorita dal fatto che in India più è bassa l’età della
sposa, minore è l’entità della dote da offrire alla famiglia dello sposo. La
discrepanza di età fa sì che siano numerose le vedove adolescenti. Nel 2001, un
censimento ne registrava in India 34 milioni, di cui, circa un terzo, vivevano rinchiuse in edifici nei quali l’accesso
agli uomini proibito.
Un orrore che aveva denunciato la regista
Deepa Mehta nel film Water (2005). La
protagonista, Chuyia, una bambina di otto anni, quando muore l’uomo a cui era
stata promessa, viene accompagnata dai genitori nella Casa delle vedove. Il film
è ambientato nel 1938, ma racconta una storia ancora
possibile ai giorni nostri. La protagonista simbolizza il destino che
riguarda, secondo Amnesty International, ottanta milioni di preadolescenti
costrette al matrimonio. La realizzazione del film venne bloccata perché i
fondamentalisti indù avevano minacciato di morte sia la regista che le attrici.
Fu poi terminato nello Sri Lanka: la denuncia delle mortificazioni di
quell’umanità silenziosa e la messa in discussione di un fanatismo religioso
che in quelle privazioni e mortificazioni prospera, aveva creato un intreccio ritenuto pericoloso.
La libertà di
espressione, di parola, di denuncia è gravida di ostacoli ovunque. Basta
pensare a cosa può accadere in Italia quando una donna decide di denunciare il
suo stupratore. Franca Rame, che ha vissuto la devastante esperienza, ha
scritto un monologo sullo stupro nel quale poliziotti, giudici e avvocati della
parte avversa, violentano con le parole, una volta ancora – la vittima. Era il
1970, ma quell’orrore non possiamo ancora considerarlo archiviato. Figuriamoci
cosa può accadere all’interno di culture nelle quali la donna è considerata
alla stregua di un oggetto. Alla mercé di un uomo che decide se e quando e come
può uscire di casa, con chi può parlare e cosa può pensare.
Sara, coordinatrice
di una struttura di accoglienza che ospita madri con minori, gestita
dall'Associazione Mondo Donna di Bologna, mi racconta la storia di Farida nata
in un piccolo paese del Pakistan. All’età
di vent’anni viene data in moglie a un uomo il quale, appena celebrato il
matrimonio, si trasferisce in Italia lasciandola in una nuova casa, lontana dal suo paese natale, con
suoceri e cognati.
Amir, il marito, torna
in Pakistan ogni sei mesi e dopo due anni comincia a maltrattare la moglie a
causa delle lamentele dei familiari in merito alla cucina e alle pulizie non
soddisfacenti e perché, cosa grave, Farida non è ancora rimasta incinta. I rapporti sono molto tesi e
tra le famiglie d’origine aleggiano malumori. Per tradizione, se una moglie non
dà alla luce un figlio può essere ripudiata e allontanata dal tetto coniugale,
permettendo così al marito di risposarsi. Al terzo anno di matrimonio Farida
rimane incinta, ma è solo alla nascita del secondo figlio, che Amir comincia ad
avviare le pratiche di ricongiungimento per far venire la famiglia in
Italia. In seguito, arriveranno anche
due fratelli di Amir. Farida deve
occuparsi delle faccende domestiche, servire gli uomini, prendersi cura
dei figli. Non può uscire per fare la
spesa, né parlare con estranei: lo spazio nel quale può transitare è quello
circoscritto all’appezzamento di terreno comprato dal marito. Tre anni dopo l’arrivo in Italia, non
conosce una sola parola della nostra lingua e la famiglia vive in una casa dove
il tempo e lo spazio sembrano sospesi in un non-luogo, un limbo tra il paese
d’origine e quello d’arrivo. Le botte sono la modalità con la quale Amir -
spalleggiato e sostenuto dai fratelli - “educa” la moglie e i bambini. La prima volta in cui Farida
esasperata, prova a ribellarsi, lui la colpisce con un bastone provocandole profonde
ferite. E’ l’autista del pullman che accompagna i figli a scuola a notare lo
stato della donna e, dopo la sua denuncia ai servizi sociali, lei e i bambini
verranno condotti in strutture protette.
Quel che emerge da
questa vicenda è che la condizione di isolamento vissuta in un paesino sperduto
del Pakistan si può riprodurre ovunque. Isolamento che in un contesto culturale
nel quale la donna è considerata non un soggetto, ma oggetto asservito alla
legge del padre prima, e del marito poi, favorisce l’insorgere di atti di
violenza. Tra le donne che vengono prese in carico, insieme ai loro figli, dai
servizi sociali, c’è chi coglie questa opportunità imparando un lavoro,
intrecciando una rete di relazioni che le aiuta ad avviare un percorso verso
l’autonomia. Mentre altre, conclude Sara, «non è infrequente che decidano di
tornare con l’uomo che le picchiava, come se la violenza e le prevaricazioni
subìte in una vita che ha le sembianze di una schiavitù, fossero comunque meno
spaventose che stringere le redini di una vita libera».
(continua)
giovedì 20 giugno 2013
Storia di Giuliana - terza parte
Intanto, le notizie che dai media
giungono su questo tema sono tutt’altro che rassicuranti. In Libano, il Parlamento si propone (gennaio 2012), attraverso la
modifica di un disegno di legge, di negare alla donna la protezione dalla
violenza domestica. Sono stati depennati dalla bozza lo stupro coniugale e la
violenza verbale ed economica. In Arabia Saudita, paese nel quale una donna non
trova un taxi su cui salire a meno che non sia accompagnata dal padre, marito o
fratello, Manal - al - Sherif è stata in prigione per una decina di giorni per
aver violato il divieto di guida. Sull’onda di questo caso, numerose donne
saudite, per protesta e solidarietà, hanno guidato da sole, rendendo poi
pubblico il gesto attraverso un video sul web. Sono i primi segnali di una
ribellione che avrà bisogno di un lungo tempo prima che i suoi effetti siano
conclamati. Infatti, è dello stesso periodo la notizia che Shayma Jastaniah,
fermata alla guida della sua auto a Jeddah, nonostante il possesso di una
patente internazionale, sia stata condannata a subire dieci frustate.
E’ venuta in Italia, nel gennaio 2012, Rachida Manjoo, giurista sudafricana
e relatrice indipendente incaricata dal Consiglio dei Diritti Umani delle
Nazioni Unite, per esaminare come viene affrontato il problema della violenza.
Riferendosi a quella domestica sottolinea che «è doverosa una sensibilizzazione
forte perché questa violenza non viene ancora percepita come un reato o un
danno, e viene troppe volte considerata normale all’interno della famiglia», e
aggiunge: «se nella società e nei media la donna viene rappresentata in maniera
riduttiva e viene considerata esclusivamente come oggetto sessuale o come
madre, si crea un terreno fertile per discriminazione e violenza di genere».
«Quel mattino i bambini erano turbolenti:
nessuna attività catturava il loro interesse, nessun gioco li teneva quieti.
Dal canto mio, avrei desiderato solo dormire. Non era puramente stanchezza, era
il torpore di chi ha smarrito la speranza, la rassegnazione di chi non immagina
un altro modo di vivere. Peggio: di chi pensa che non può meritarsi di meglio.
Presi il cellulare per telefonare a mia madre: sapeva delle nostre crisi, ma
non conosceva la verità. Avrei voluto solo chiacchierare un po’. Non avevo più
credito: da alcuni giorni avevo chiesto a mio marito di ricaricarlo, ma “si
dimenticava” sempre. Mi osservai dall’esterno: ero una giovane donna, con un
futuro da vivere, segregata in casa.
Non so poi se abbia inciso anche il fatto che
la sera prima avevo visto un film che amavo molto: Qualcuno volò sul nido del cuculo (i film
non rientravano in alcun divieto, purché si vedessero in casa). Quel mattino
avevo impressa l’immagine di Bromden, uno dei protagonisti, il Capo indiano che
si finge sordomuto. Nella parte finale del film, lui e l’altro protagonista -
Jack Nicholson - decidono di fuggire
dalla clinica psichiatrica. Bromden solleva un lavandino di marmo, è
pesantissimo, lo deve scardinare dal pavimento. Un lungo primo piano sul suo
volto riprende la fatica che compie nel sollevarlo, poi - con una
determinazione coltivata durante la lunga permanenza nell’ospedale psichiatrico
- lo lancia contro una porta-finestra, e fugge.
Probabilmente fu una casualità, di fatto
realizzai in quel momento che abitavamo al primo piano. Scavalcai il balcone,
suonai il campanello dei vicini di casa - furono gentili, mi permisero di
telefonare a mia madre. Non le diedi molte spiegazioni, le domandai se sarebbe
stata disposta a pagare il costo di un lungo tragitto in taxi. Rientrai dal balcone, preparai le
valigie con l’essenziale, non persi tempo a guardarmi intorno. Scavalcai di
nuovo: con i bambini fu più complesso ma pensarono fosse un nuovo gioco. No,
non si trattava di un gioco, ma qualcosa di nuovo era».
(continua)
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