I numeri che si raggiungono sommando
i dati che riguardano la violenza femminile sia in Italia che all’estero sono
raccapriccianti, e sempre approssimativi perché il silenzio è ingombrante.
Rekha Khalindi, indiana di dodici anni, ha osato sfidare la tradizione delle
spose bambine. Aberrazione frequente quella del matrimonio tra una bambina e un
uomo avanti negli anni, favorita dal fatto che in India più è bassa l’età della
sposa, minore è l’entità della dote da offrire alla famiglia dello sposo. La
discrepanza di età fa sì che siano numerose le vedove adolescenti. Nel 2001, un
censimento ne registrava in India 34 milioni, di cui, circa un terzo, vivevano rinchiuse in edifici nei quali l’accesso
agli uomini proibito.
Un orrore che aveva denunciato la regista
Deepa Mehta nel film Water (2005). La
protagonista, Chuyia, una bambina di otto anni, quando muore l’uomo a cui era
stata promessa, viene accompagnata dai genitori nella Casa delle vedove. Il film
è ambientato nel 1938, ma racconta una storia ancora
possibile ai giorni nostri. La protagonista simbolizza il destino che
riguarda, secondo Amnesty International, ottanta milioni di preadolescenti
costrette al matrimonio. La realizzazione del film venne bloccata perché i
fondamentalisti indù avevano minacciato di morte sia la regista che le attrici.
Fu poi terminato nello Sri Lanka: la denuncia delle mortificazioni di
quell’umanità silenziosa e la messa in discussione di un fanatismo religioso
che in quelle privazioni e mortificazioni prospera, aveva creato un intreccio ritenuto pericoloso.
La libertà di
espressione, di parola, di denuncia è gravida di ostacoli ovunque. Basta
pensare a cosa può accadere in Italia quando una donna decide di denunciare il
suo stupratore. Franca Rame, che ha vissuto la devastante esperienza, ha
scritto un monologo sullo stupro nel quale poliziotti, giudici e avvocati della
parte avversa, violentano con le parole, una volta ancora – la vittima. Era il
1970, ma quell’orrore non possiamo ancora considerarlo archiviato. Figuriamoci
cosa può accadere all’interno di culture nelle quali la donna è considerata
alla stregua di un oggetto. Alla mercé di un uomo che decide se e quando e come
può uscire di casa, con chi può parlare e cosa può pensare.
Sara, coordinatrice
di una struttura di accoglienza che ospita madri con minori, gestita
dall'Associazione Mondo Donna di Bologna, mi racconta la storia di Farida nata
in un piccolo paese del Pakistan. All’età
di vent’anni viene data in moglie a un uomo il quale, appena celebrato il
matrimonio, si trasferisce in Italia lasciandola in una nuova casa, lontana dal suo paese natale, con
suoceri e cognati.
Amir, il marito, torna
in Pakistan ogni sei mesi e dopo due anni comincia a maltrattare la moglie a
causa delle lamentele dei familiari in merito alla cucina e alle pulizie non
soddisfacenti e perché, cosa grave, Farida non è ancora rimasta incinta. I rapporti sono molto tesi e
tra le famiglie d’origine aleggiano malumori. Per tradizione, se una moglie non
dà alla luce un figlio può essere ripudiata e allontanata dal tetto coniugale,
permettendo così al marito di risposarsi. Al terzo anno di matrimonio Farida
rimane incinta, ma è solo alla nascita del secondo figlio, che Amir comincia ad
avviare le pratiche di ricongiungimento per far venire la famiglia in
Italia. In seguito, arriveranno anche
due fratelli di Amir. Farida deve
occuparsi delle faccende domestiche, servire gli uomini, prendersi cura
dei figli. Non può uscire per fare la
spesa, né parlare con estranei: lo spazio nel quale può transitare è quello
circoscritto all’appezzamento di terreno comprato dal marito. Tre anni dopo l’arrivo in Italia, non
conosce una sola parola della nostra lingua e la famiglia vive in una casa dove
il tempo e lo spazio sembrano sospesi in un non-luogo, un limbo tra il paese
d’origine e quello d’arrivo. Le botte sono la modalità con la quale Amir -
spalleggiato e sostenuto dai fratelli - “educa” la moglie e i bambini. La prima volta in cui Farida
esasperata, prova a ribellarsi, lui la colpisce con un bastone provocandole profonde
ferite. E’ l’autista del pullman che accompagna i figli a scuola a notare lo
stato della donna e, dopo la sua denuncia ai servizi sociali, lei e i bambini
verranno condotti in strutture protette.
Quel che emerge da
questa vicenda è che la condizione di isolamento vissuta in un paesino sperduto
del Pakistan si può riprodurre ovunque. Isolamento che in un contesto culturale
nel quale la donna è considerata non un soggetto, ma oggetto asservito alla
legge del padre prima, e del marito poi, favorisce l’insorgere di atti di
violenza. Tra le donne che vengono prese in carico, insieme ai loro figli, dai
servizi sociali, c’è chi coglie questa opportunità imparando un lavoro,
intrecciando una rete di relazioni che le aiuta ad avviare un percorso verso
l’autonomia. Mentre altre, conclude Sara, «non è infrequente che decidano di
tornare con l’uomo che le picchiava, come se la violenza e le prevaricazioni
subìte in una vita che ha le sembianze di una schiavitù, fossero comunque meno
spaventose che stringere le redini di una vita libera».
(continua)
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