«Il punto è che non mi fidai abbastanza di me
stessa, e in tutta sincerità, devo dire che i segnali veri giunsero dopo il
matrimonio» continua Giuliana. «La gelosia
patologica, il tentativo di farmi smettere di lavorare - l’unico tranello nel
quale non ero caduta - la capacità di crearmi il vuoto intorno, una facciata
perfetta, e in casa, insulti, minacce continue. Poi, il controllo totale del
denaro e delle telefonate. Ma non voglio elencare le solite miserie, sono
appunto solite e comunque si diversifichino hanno in comune il fatto di
mantenere un clima di paura che paralizza. Dopo, è nato un figlio - sì, lo so
cosa stai pensando - anch’io oggi mi domando come potevo tollerare il sesso con
un uomo simile. Eppure l’inizio era stato piacevole, poi per lungo tempo ho
sperato che desiderio e tenerezza riemergessero dai pozzi nei quali si erano
inabissati. Speranza vana. Vigeva il solito meccanismo: una parola mal detta, e
via con urla, minacce e insulti che si acquietavano a letto. Era l’unico modo
che conosceva per avvicinarsi a me. Il bambino aveva due anni quando sono
giunta al punto di rottura. Una notte ho radunato uno a uno i miei pezzi
sparsi, mi sono vestita e sono uscita di casa. Guidavo piano per le strade del
paese. Era inverno, al posto degli alberi fantasmi
congelati, il buio appena schiarito da una neve vischiosa. Ho vagato per ore,
senza pensare, senza una meta, un progetto, un’idea che dessero un seguito a
quella fuga. A casa c’era il bambino che dormiva. Non avevo la forza di
andarmene con lui, né senza di lui. Mi hanno trovata al mattino, nella piazzola
a fianco del cimitero, la testa appoggiata al volante della macchina».
Dopo questo episodio Giuliana chiede la separazione, ma quando il
giudice chiede alla coppia se vogliono riprovare a stare insieme, non riesce a
dire di no. Dalla fuga nella notte a quel mattino in tribunale, sono trascorsi
mesi. Tempo durante il quale il marito di Giuliana si è riposizionato
all’interno di parametri relazionali che non superano mai il limite oltre il
quale lei non regge più. Anche i cani, tenuti a un guinzaglio troppo corto,
guaiscono e si divincolano, è allentando un po’ la corda che si placa la loro
ribellione. Nel frattempo a Giuliana succede ciò che è consueto: si sente in
colpa per volere la separazione, ma specialmente per “non essere riuscita a
cambiarlo”. E’ convinta, e anche questo non costituisce eccezione, che tocca a
una donna trovare il modo di “tenersi un uomo”, e che se lui ha reazioni malate
è certamente per qualcosa di sbagliato che lei ha detto o fatto. In questo
contesto nasce il secondo figlio, ed è per questa nuova gravidanza che il
marito rispolvera gli argomenti utili affinché Giuliana si licenzi. Primo fra
tutti: una buona madre sta a casa a
seguire i propri figli. Intanto, propone un trasferimento in un’altra
regione.
«Con la nascita del secondo figlio, la
violenza (ma io al tempo la definivo pressione psicologica) aumentò. Gli
proposero un lavoro in un’altra regione e mi chiese di seguirlo. Oggi so che un
abbozzo di ribellione definitiva cominciava a palesarsi, ciò che pensai allora
fu che potevo approfittare del congedo maternità per verificare ciò che lui
sosteneva essere vero: la sua rabbia era dovuta al fatto che io, lavorando, non
mi occupavo abbastanza di lui e dei figli. Se noi ci fossimo rinchiusi nel
cerchio sacro della famiglia, tutti gli insulti, i litigi, non avrebbero avuto
motivo di esistere. Partimmo. Trascorsero tre mesi durante i quali io stavo in
casa tutto il giorno con due bambini piccoli, senza familiari o amici nei
dintorni. Nessuna persona adulta con cui conversare. Lui ogni mattina andava al
lavoro chiudendo a chiave la porta dietro di sé. Ci sigillava dentro. La spesa
la faceva lui, così - diceva - non avevo bisogno di denaro».
I
luoghi comuni che riguardano la violenza la descrivono riferita a ceti sociali
disagiati, o come conseguenza di una difficile integrazione per gli immigrati,
oppure espressione di patologie psichiatriche. Si tratta invece di un fenomeno
trasversale a strati sociali e culturali, a età e religioni. I fattori che
rallentano o impediscono la rottura di un legame malato sono la paura, la
dipendenza economica, la vergogna, il timore di non essere creduta, la colpa,
la speranza di cambiare il partner. Infine, l’isolamento, dentro il quale tutti
gli altri fattori prosperano.
(continua)
(continua)
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