martedì 11 giugno 2013

Storia di Giuliana - seconda parte



«Il punto è che non mi fidai abbastanza di me stessa, e in tutta sincerità, devo dire che i segnali veri giunsero dopo il matrimonio» continua Giuliana. «La gelosia patologica, il tentativo di farmi smettere di lavorare - l’unico tranello nel quale non ero caduta - la capacità di crearmi il vuoto intorno, una facciata perfetta, e in casa, insulti, minacce continue. Poi, il controllo totale del denaro e delle telefonate. Ma non voglio elencare le solite miserie, sono appunto solite e comunque si diversifichino hanno in comune il fatto di mantenere un clima di paura che paralizza. Dopo, è nato un figlio - sì, lo so cosa stai pensando - anch’io oggi mi domando come potevo tollerare il sesso con un uomo simile. Eppure l’inizio era stato piacevole, poi per lungo tempo ho sperato che desiderio e tenerezza riemergessero dai pozzi nei quali si erano inabissati. Speranza vana. Vigeva il solito meccanismo: una parola mal detta, e via con urla, minacce e insulti che si acquietavano a letto. Era l’unico modo che conosceva per avvicinarsi a me. Il bambino aveva due anni quando sono giunta al punto di rottura. Una notte ho radunato uno a uno i miei pezzi sparsi, mi sono vestita e sono uscita di casa. Guidavo piano per le strade del paese. Era inverno, al posto degli alberi fantasmi congelati, il buio appena schiarito da una neve vischiosa. Ho vagato per ore, senza pensare, senza una meta, un progetto, un’idea che dessero un seguito a quella fuga. A casa c’era il bambino che dormiva. Non avevo la forza di andarmene con lui, né senza di lui. Mi hanno trovata al mattino, nella piazzola a fianco del cimitero, la testa appoggiata al volante della macchina».

Dopo questo episodio Giuliana chiede la separazione, ma quando il giudice chiede alla coppia se vogliono riprovare a stare insieme, non riesce a dire di no. Dalla fuga nella notte a quel mattino in tribunale, sono trascorsi mesi. Tempo durante il quale il marito di Giuliana si è riposizionato all’interno di parametri relazionali che non superano mai il limite oltre il quale lei non regge più. Anche i cani, tenuti a un guinzaglio troppo corto, guaiscono e si divincolano, è allentando un po’ la corda che si placa la loro ribellione. Nel frattempo a Giuliana succede ciò che è consueto: si sente in colpa per volere la separazione, ma specialmente per “non essere riuscita a cambiarlo”. E’ convinta, e anche questo non costituisce eccezione, che tocca a una donna trovare il modo di “tenersi un uomo”, e che se lui ha reazioni malate è certamente per qualcosa di sbagliato che lei ha detto o fatto. In questo contesto nasce il secondo figlio, ed è per questa nuova gravidanza che il marito rispolvera gli argomenti utili affinché Giuliana si licenzi. Primo fra tutti: una buona madre sta a casa a seguire i propri figli. Intanto, propone un trasferimento in un’altra regione.

«Con la nascita del secondo figlio, la violenza (ma io al tempo la definivo pressione psicologica) aumentò. Gli proposero un lavoro in un’altra regione e mi chiese di seguirlo. Oggi so che un abbozzo di ribellione definitiva cominciava a palesarsi, ciò che pensai allora fu che potevo approfittare del congedo maternità per verificare ciò che lui sosteneva essere vero: la sua rabbia era dovuta al fatto che io, lavorando, non mi occupavo abbastanza di lui e dei figli. Se noi ci fossimo rinchiusi nel cerchio sacro della famiglia, tutti gli insulti, i litigi, non avrebbero avuto motivo di esistere. Partimmo. Trascorsero tre mesi durante i quali io stavo in casa tutto il giorno con due bambini piccoli, senza familiari o amici nei dintorni. Nessuna persona adulta con cui conversare. Lui ogni mattina andava al lavoro chiudendo a chiave la porta dietro di sé. Ci sigillava dentro. La spesa la faceva lui, così - diceva - non avevo bisogno di denaro».


I luoghi comuni che riguardano la violenza la descrivono riferita a ceti sociali disagiati, o come conseguenza di una difficile integrazione per gli immigrati, oppure espressione di patologie psichiatriche. Si tratta invece di un fenomeno trasversale a strati sociali e culturali, a età e religioni. I fattori che rallentano o impediscono la rottura di un legame malato sono la paura, la dipendenza economica, la vergogna, il timore di non essere creduta, la colpa, la speranza di cambiare il partner. Infine, l’isolamento, dentro il quale tutti gli altri fattori prosperano. 
(continua)

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