martedì 18 dicembre 2012

Tutto parla di te



Tutto parla di te è un film sull’essere madre, difficoltà comprese. Di Alina Marazzi, la regista, avrei voluto scriverne già nel libro La solitudine delle madri, ma venni a conoscenza del suo lavoro in ritardo. Ho rimediato in Reclusioni di corpi e di menti e nel capitolo Luci e ombre della maternità, di Alina Marazzi ho scritto: “La regista racconta nel documentario Un’ora sola ti vorrei, la storia di sua madre, Liseli Hoepli, che si era suicidata a trentatre anni. Attraverso le lettere, le fotografie, i diari, i video di famiglia, ricostruisce la storia di Liseli, nata in una famiglia dell’alta borghesia milanese. Quando, dopo il matrimonio e la nascita dei due figli, sprofonda in una forte depressione, il suo malessere viene confuso con il capriccio di una ragazza. Eppure, osservando con un po’ d’attenzione lo sguardo della donna, emerge forte la discrepanza tra il contesto esterno nel quale è inserita: spazi ampi, giardini curati, abiti eleganti, benessere, e ciò che quegli occhi raccontano. Le massicce inquietudini di cui aveva sofferto in adolescenza, invece di allentarsi nell’età adulta, si erano amplificate con la maternità. Il senso di inadeguatezza che sentiva come madre era diventato schiacciante: una delle crepe impossibili da riparare. Fino al gesto estremo.Quando Alina Marazzi ha realizzato il documentario - nel 2002 - aveva trentasette anni: età nella quale diventa urgente fare i conti con la propria storia. Lei lo ha fatto in modo struggente, mettendo insieme i pezzi sparsi della storia di sua madre, ridandole vita. Per fare questo ha riaperto armadi chiusi che contenevano i filmini del nonno, diari e memorie e ombre. E’ andata a cercare, non ha avuto paura di vedere, oppure ha invece avuto una paura terribile, meno forte però del suo bisogno/desiderio di capire. Nel documentario è Alina stessa che presta la voce a sua madre e, dopo averlo realizzato, è diventata lei stessa madre. Forse non l’aveva desiderato fino a quel momento, o forse, prima di proiettarsi nel futuro, ha sentito la necessità di ricomporre le sue origini.Come accade spesso, quando una donna inizia a pensare un figlio, a desiderarlo, rimette in gioco la propria storia di figlia e, in quella partita, riemergono i contenuti della relazione con chi l'ha messa al mondo e dei colori - lievi o cupi - che hanno caratterizzato quella relazione".



martedì 4 dicembre 2012

giovedì 29 novembre 2012

Più libri più liberi


Sabato 8 dicembre sarò a Roma a Più libri più liberi. Chi desidera chiacchierare con me sui temi dei libri: La solitudine delle madri e Reclusione di corpi e di menti (ma non solo eh! Anche di viaggi, di scarpe, di buon cibo, della pioggia, e di qualunque cosa  sia bello condividere) non dovrà fare altro che venire allo stand della Magi edizioni. Nel frattempo cerco anche di capire l’ubicazione dello stand all’interno della fiera e nei prossimi giorni scriverò indicazioni più precise. Vi aspetto!

mercoledì 21 novembre 2012

Introduzione del libro (quarta e ultima parte)

Distinguere, prediligere, selezionare, filtrare, optare, sono solo alcuni fra i sinonimi del verbo scegliere. E’ bene conoscerli e praticarli, nelle loro molteplici declinazioni, per la possibilità che ci danno di abitare il territorio della libertà.
Tuttavia, seppur la parola “reclusione” richiami in negativo una costrizione, non possiamo dimenticare quanto di buono possa invece contenere. Ci sono storie di eremitaggio, come quella di Marco Puchetti, che ha archiviato la laurea alla Bocconi e una carriera in azienda per chiudersi in un borgo abruzzese, vivendo secondo ritmi e bisogni più elementari. Ma, senza arrivare a scelte così estreme, possiamo accorgerci che per superare un periodo difficile o per far nascere cose nuove abbiamo bisogno di silenzio e di distanza. E un luogo protetto, chiuso, un luogo che abitiamo per nostro desiderio e non per volere altrui, può svolgere una funzione analoga a quella del liquido amniotico nel grembo materno: attutire gli urti e fornire nutrimento mentre la gestazione procede.

Bronnie Ware è un’infermiera australiana che assiste i malati terminali. Oltre ad alleviarne il dolore con i farmaci, li accompagna nel tratto finale della loro vita: quello dei bilanci autentici, quando fingere con sé stessi e gli altri è pressoché impossibile, e ciò che non è stato vissuto è marchiato dal fuoco dell’assenza. Ware ha raccolto numerose testimonianze ponendo sempre la stessa domanda: “C’è qualcosa che rimpiangi”? Poi, ha stilato una classifica e ha scritto il libro I cinque rimpianti più grandi di chi sta per morire. Fra questi c’è quello di aver lavorato troppo, di aver espresso poco i propri sentimenti, coltivato male le amicizie, e la felicità. Ma il rimpianto più grande è quello di non aver vissuto la vita in base alle proprie scelte, di essersi lasciati condizionare dalle aspettative altrui, chiudendosi in gabbie che la società considera inevitabili. Non aver osato dare una forma ai propri sogni. Andarsene senza esser prima diventati se stessi.


martedì 13 novembre 2012

Introduzione del libro (terza parte)

Ma la malattia in generale è un luogo chiuso: tutti, entrando in un ospedale, provano la sensazione di entrare in un mondo altro, circoscritto, di mutate priorità.
E quando noi o un nostro familiare attraversiamo una malattia, impariamo i limiti che porta con sé, tocchiamo con mano e impariamo centimetro per centimetro il territorio che abitiamo: uno spazio ristretto. Facciamo quindi i conti con movimenti ridotti o con aspettative di vita ridimensionate. Senza contare che non sono pochi coloro i quali, in nome di un approccio più consapevole alla malattia, si sono sentiti dire frasi il cui sottofondo più o meno recita: “Ti sei ammalato perché te lo sei voluto”. Dunque a un certo punto ci si può trovare a convivere non solo con una patologia ma con la colpa di averla provocata. Poiché, a proposito di parrocchie, nel campo della cura ne esistono molte il cui integralismo non ha nulla da invidiare alla più rigida delle religioni.
Così, il corpo ammalato talvolta significa corpo colpevole, da nascondere, da negare, come la morte, come la vecchiaia. Si preferisce coltivare l'inganno di un eterno presente, sano, potente, invincibile, negando la biologia, il tempo, illudendosi che se sposo in toto questa filosofia, questa cura, questo credo, non mi ammalo o se mi ammalo guarisco, comunque non muoio. Nego così il corpo reale, la vita vera, fatta di intoppi, di inciampi e patologie. Vale forse la pena di immaginare quanto terribile potrebbe essere la vita senza un finire, un punto di rottura, un limite. Ci sono cose che non si possono scegliere, accadono e basta, fanno parte dei giorni, delle cellule, del respiro, della carne. Dobbiamo imparare ad accettarle. Ci sono cose che si possono scegliere e su queste è nostro dovere  riflettere. Distinguendo tra l’abitare un luogo perché lo si desidera o perché così ci è stato detto di fare.
Andare altrove, che si tratti di un luogo fisico o di un luogo emotivo, non è cosa semplice: bisogna percorrere nuove strade e incontrare luoghi sconosciuti che in quanto tali possono risultare inquietanti. Ci vuole uno slancio, un’apertura, ed è necessaria una buona dose di fiducia quando tocca dare un taglio, allontanandosi da quel che è stato. Uno svincolo ostico. Uscire dalle prigioni interiori è arduo e richiede di solito un lungo cammino, ma è una strada obbligata se desideriamo che libertà non sia soltanto una bella parola. Quando usciamo dai confini abituali per confonderci con nuovi paesaggi, per un po' siamo sbilanciati, ci sentiamo persi. Eppure, nulla come spalancare nuove porte ci mette a contatto con orizzonti prima impensabili, trasformandoci.
(continua)

sabato 10 novembre 2012

Introduzione del libro (seconda parte)

A volte, proprio non è possibile. In carcere per esempio, dove la reclusione non è solo psicologica ma fisica, e il tempo e lo spazio subiscono radicali alterazioni; dove i vincoli sociali e le abitudini quotidiane vengono soppressi. Può inoltre succedere che la separazione dal resto del mondo continui anche dopo aver scontato il periodo di detenzione, non più su un piano fisico ma emotivo. Le difficoltà dovute al reinserimento sono inevitabili, e richiedono percorsi non certo agevoli.
Un altro recinto che può assumere connotazioni dolorose è quello della solitudine. Naturalmente non mi riferisco alla solitudine cercata: quel luogo dolce nel quale si sta piacevolmente in compagnia di se stessi, mettendo distanze dal ritmo incalzante del quotidiano; quel luogo nel quale si crea, si pensa, si diventa fecondi, ci si ricarica per una successiva apertura al mondo esterno. Mi riferisco alla solitudine subìta, che ha le caratteristiche della mancanza, dell'esclusione, che coincide con il vissuto sterile della depressione, ed è connotata da un senso di morte, di impotenza e di vuoto. La prima è un rifugio che favorisce la crescita interiore, la seconda è una gabbia che paralizza l'esistenza conducendo un senso di estraneità a se stessi e agli altri. Indubbiamente, come ha scritto D. H. Lawrence: “E' molto più facile forzare le sbarre di una prigione che aprire porte sconosciute sulla vita”.
Di recente una donna mi diceva che invece vorrebbe, eccome vorrebbe, uscire dalla casa in cui lavora come badante. Ma non può. Originaria della Romania, non ha altro luogo in cui vivere. Sta cercando un'altra occupazione. Per ora, una volta la settimana, a turno, i figli dell'anziana donna di cui si occupa, si recano nel cascinale distante chilometri dalla casa più prossima, portano viveri e medicinali, verificano che tutto sia a posto e se ne vanno. E questa donna rimane, giorno e notte, con una persona che da tempo ha perso le funzioni cognitive. La lava, la nutre, le parla, l'anziana però non risponde. L'assenza di un qualunque dialogo rinchiude entrambe in un vuoto, in questo caso percepito con disperazione solo da colei che cura.

venerdì 9 novembre 2012

Introduzione del libro (prima parte)

In questo periodo ho purtroppo poco tempo per scrivere sul blog. In attesa che quel tempo ritorni, pubblicherò una serie di post nei quali potrete leggere tutta l'introduzione di Reclusioni di corpi e di menti.


Anni fa, una donna mi pose la seguente domanda: “Quale parrocchia frequenta?”. Pensai che risposta darle, poiché intuivo che dietro la sua domanda c’era la curiosità di sapere se fossi credente e non quale fosse il mio luogo di culto prescelto. Non intendevo tuttavia darle spiegazioni sulle mie eventuali pratiche religiose. Risposi dunque: “Non frequento una sola parrocchia, ne frequento tante, in orari diversi”. Apparve delusa. Non mi aveva mai vista nella sua, di chiesa, ma chi poteva dire, a quel punto, se ero un'assidua partecipante a riti di altre parrocchie?
Il seme di questo libro è nato quel giorno, ma affonda le sue radici in un terreno personale che coltiva - da sempre - un'idiosincrasia profonda verso la consuetudine di collocare le persone all'interno di una gabbia stretta sulla quale incollare l'etichetta di un'appartenenza religiosa, culturale, politica, economica, professionale. Etichetta che non può fare altro che limitare e tradire la molteplicità e la ricchezza di ogni essere umano. Nelle gabbie, in qualunque gabbia, si sta stretti, si irrigidiscono le articolazioni e i pensieri, non esiste lo spazio per cose nuove, e il senso di soffocamento che ne deriva provoca inevitabile malessere. E' sufficiente riflettere un attimo sulla reclusione, per osservare un'infinità di situazioni, reali e interiori, che possono includere tale caratteristica.
Esistono aree specifiche di reclusione come i conventi, o i manicomi, prima della legge Basaglia che ne decretò la chiusura. Naturalmente se è impensabile che una donna scegliesse di andare in manicomio era ed è più probabile invece la scelta di entrare in convento. Anche se è corposo il numero di donne che vi ha trascorso la vita desiderando essere altrove. Esistono inoltre alcune aree nelle quali la reclusione non ha a che fare con un luogo fisico bensì si colloca nelle emozioni o nei pensieri: per esempio il corpo, il trascorrere degli anni, la maternità. In ciascuna di queste aree, aspirazioni di perenne giovinezza o negazioni delle difficoltà, si definiscono criteri standard, ai quali ognuno di noi dovrebbe adeguarsi. E' evidente quanto tutto ciò possa rendere complicato il vivere quotidiano di chi non riesce a recidere sbarre che limitano la libertà. Quotidiano che diventa un inferno se ci inoltriamo nelle aree della tossicodipendenza, della violenza, e facciamo i conti con la difficoltà di uscirne. Non a caso, troviamo spesso il verbo uscire in frasi quali: uscire dalla spirale della droga, uscire dal buio della violenza. Uscire dunque, andarsene, scappare, fuggire da un luogo chiuso che crea dolore.


(continua)

sabato 20 ottobre 2012

Di armonia risuona e di follia

Augusto Romano scrive in una recensione su Tuttolibri del libro di Eugenio Borgna Di armonia risuona e di follia (Feltrinelli): “E’ questo atteggiamento che genera i tanti pregiudizi che si addensano intorno alla malattia mentale (è violenta, è incomprensibile, è incurabile…) ed hanno alimentato la pratica manicomiale (emarginazione, svalutazione, isolamento).  La psichiatria che colleziona soltanto i sintomi e si nega alla comprensione della vita interiore, dimentica – osserva Borgna – che la schizofrenia, come uno specchio, riflette la fragilità e la vulnerabilità della condizione umana, costantemente esposta al rischio di «perdersi nel deserto del dolore e della solitudine». Occorre riconoscere quanto i confini tra la follia clinica e la follia metaforica che è in ciascuno di noi siano labili e permeabili, e leggere nella follia l’essenziale solitudine e l’angoscia che abitano l’umano”.

Ciò che è accaduto nei manicomi, poco per volta, negli anni, è venuto alla luce. Eppure quando ho scritto il capitolo sul manicomio e ho letto, cercato, mi sono documentata, sono stata spesso sopraffatta dall’orrore per il numero inquietante di vite umane che vi hanno trascorso anni, decenni, a causa di malesseri che sarebbero stati curabili se solo si fosse dato uno sguardo, una qualche importanza alla vita interiore. L’esperienza non ha insegnato abbastanza però, poiché ancora oggi è tutt’altro  che inconsueto, per troppi psichiatri, evitare quello sguardo.

lunedì 1 ottobre 2012

Eccolo!


Vita in clausura

Uno dei capitoli del libro è dedicato alla vita in clausura, e il mio desiderio era quello di intervistare una donna che avesse vissuto l’esperienza  e poi ne fosse uscita. Mi interessava “quel” punto di vista. Ma a libro praticamente terminato nessuna tre le persone che conosco e che molto hanno collaborato a trovare le testimonianze degli altri capitoli, poteva essermi d’aiuto. Stavo, a malincuore, rinunciando, quando ho incontrato un’amica che non vedevo da tempo. “A che punto è il libro”? mi domanda, e io “Quasi terminato, mancherebbe ancora una testimonianza, ma non sono riuscita a trovarla”. Cinque minuti dopo avevo la mail di Irma, che ha vissuto 16 anni in monastero, e il giorno dopo la sua disponibilità a raccontare la sua storia. Irma è l’unica persona che non ho incontrato direttamente, e non perché non lo desiderassimo entrambe, ma la distanza geografica e i tempi di consegna del libro, ci hanno fatto decidere di lavorare via telefono o via mail. Irma sa usare bene le parole, e dunque scrivere la sua storia è stato molto semplice. Una storia intensa, nella quale narra le motivazioni che l’avevano spinta a chiudersi in monastero e poi a uscirne. C’è una frase, fra le tante sue che mi piacciono, che desidero riportare qui perché è una delle cose che voglio coltivare con tenacia: “Mi è rimasto addosso l’uso parco delle parole, una propensione a non perdere tempo con ciò che non è necessario”.

lunedì 24 settembre 2012

Perché l’arte terapia alla Collina degli elfi




Sia i bambini malati di cancro in remissione di malattia, sia i loro familiari, avranno la possibilità di partecipare ai laboratori di arte terapia che si terranno all’interno della struttura. Perché che siano i padri, che siano le madri, che siano i fratelli di questi bambini, la situazione è quella di un gruppo di persone che sta facendo i conti con un evento difficile e doloroso. Un evento nel quale la parola morte è un’eco continua. La genitorialità è anche questo, è fare i conti con la possibilità che un figlio muoia prima di noi, ed è un ipotesi talmente terribile - eppure accade - che non esiste nome per definirla. Quando noi pronunciamo la parola orfano sappiamo esattamente a quale  mancanza stiamo dando nome, quando noi pronunciamo la parola vedovo sappiamo esattamente a quale lutto stiamo dando nome, ma la morte di un figlio non ha nome. Forse, l’urlo di Munch può rappresentare qualcosa di quell’abisso.

giovedì 13 settembre 2012

Bologna, 21-22 settembre

Art Therapy Italiana, per i 30 anni di attività, ha organizzato due giornate dense di eventi. Per chi vive a Bologna e dintorni, e desidera  tuffarsi nella creatività, è un’esperienza notevole. Bè, io sono di parte perché ad Art Therapy ho studiato. (E’stata una fra le migliori scelte della mia vita, potrei essere obiettiva)?

Copertina

Qualche giorno ancora prima di riempirmi di pagine: una sull’altra, tutte ordinate, numerate, corrette e ricorrette. Quando saranno pronte le abbraccerò strette e farò il mio dovere.  Andrò  in libreria e mi lascerò guardare, toccare, valutare.  Per ora me ne sto qua, libera, con le ali spiegate.

venerdì 31 agosto 2012

La Collina degli Elfi

La reclusione della malattia è una delle tante di cui non ho scritto nel libro. Lo farò qui parlandovi della Collina degli Elfi. La Collina è nata da un sogno di Luisella  Canale, psicologa, e dalla capacità di tanti volontari di mettere insieme risorse, lavoro, impegno, e anima.  Da ottobre, le prime famiglie dei bambini malati di cancro in remissione di malattia, potranno trascorrere una settimana che farà da ponte tra il periodo in ospedale e il ritorno a casa. Io sarò una delle volontarie dei laboratori di arte terapia, e poi proverò a tradurre l’esperienza in parole. Proverò. Qui.

giovedì 30 agosto 2012

Gestazioni

Oltre al libro di Thomas Bernhard di cui vi ho parlato nel post precedente, un altro fattore è stato determinante per scrivere il mio. Diventare nonna. Quando ho saputo che un bimbo (anzi…una bimba) era in viaggio, per alcune ore i miei neuroni sono andati in tilt per la scossa emotiva. Articolare un pensiero era impresa impossibile e ho trascorso una giornata intera in quelle condizioni. Poi, la nebbia è sfumata, e il primo pensiero lucido  è stato: “Devo terminare il libro prima che il bambino nasca”. Può, secondo voi, una donna che ha a lungo scritto e lavorato sulle ombre materne, defilarsi dall’essere nonna con la scusa che ha un libro da terminare? No, non può, non deve, e soprattutto, non vuole. E quindi mentre Emma cresceva nella pancia di sua madre, la gestazione del libro è stata portata a compimento.  Per chi, a proposito di creatività, desiderasse una lettura un po’ meno …terra terra di ciò che ho appena scritto, troverà qui una bella sintesi.

giovedì 23 agosto 2012

La gestazione, le coincidenze, gli incontri

Lessi  la recensione di un libro di Thomas Bernhard e l’unica cosa che pensai fu che era la prima volta che sentivo parlare di quello scrittore. Nei giorni successivi mi capitò di incrociare il suo nome in alcuni blog letterari e su Tuttolibri. Pareva fossi l’unica che non lo conoscevo. Mi incuriosii. Cercai dunque un libro di Thomas Bernhard, con la speranza che, come mi era successo con altri autori, aprisse la strada a tutta la sua opera a me ancora sconosciuta. Non accadde. Infatti ricordo a malapena il titolo, forse La cantina, ma ciò che ricordo bene è che a pagina 30 pensai: “Perché continuare? Con tutti i libri che ci sono e che non riuscirò a leggere in tutta la vita”. Tuttavia mi incuriosì il fatto che una frase ricorreva più volte, una frase in corsivo che trovava più collocazioni man mano che la storia procedeva. Dunque mi piacque poco il libro ma molto l’idea, e cominciai a rifletterci su. La parola “reclusioni” del titolo del mio libro è nata così. Pensando che sarebbe piaciuto anche a me usare un espediente simile. Invece di una frase una parola sola, ma una parola che potesse avere risonanza in tutti i capitoli. Perché fu a quel punto che pensai che avrei suddiviso il libro in capitoli diversi in base a ogni argomento, e che la parola reclusione (che mi frullava in testa da un po’ riflettendo sulla reclusione dei modelli del corpo), ha una connotazione negativa quando la subiamo, ma che può essere una cosa bella se è una scelta. Alla fine dunque ho scritto partendo dalla reclusione, ma tenendo ben presente la parola libertà. Sono stati fondamentali gli incontri con donne di uno spessore notevole che mi hanno narrato le loro storie. Senza il loro aiuto questo libro non sarebbe mai nato. Sono state generose e  autentiche e si sono fidate a raccontare a una perfetta sconosciuta quanto di più intimo e difficile avevano attraversato o stavano vivendo.  Dopo, ho ripreso le loro parole e le ho cucite insieme a mie riflessioni. Tutto qui. Grazie Thomas Bernhard, ma soprattutto grazie a Giuliana che è fuggita dalla violenza, Sara che è scesa a patti con il suo corpo, Francesca che, uscita dal buio della maternità, non intende dimenticare, Veronica e la sua ironia sui 50 anni, Irma che è uscita dal monastero, e Ida che ci è entrata,  Francesca e le sostanze, Chiara e i segreti di famiglia. Grazie a Bruno, che ha lavorato tutta la vita in manicomio, e che non solo mi ha raccontato, ma mi ha accompagnata in quelle stanze vuote. Vuote di persone, ma colme di terribile memoria.

lunedì 20 agosto 2012

I cicli della creatività

Dopo La solitudine delle madri sentivo che avevo ancora qualcosa di urgente ( urgente per me, naturalmente) da dire.  Tuttavia, quando pensavo al tema sul quale scrivere, ciò che mi veniva in mente, mi convinceva solo in parte. Avevo pensato di scrivere sul tema del corpo, sui modelli di donna (pochi, stereotipati), ma quando dal pensiero passavo all’azione, e prendevo appunti, mi documentavo, scrivevo, ciò che veniva fuori non mi piaceva abbastanza da pensare a una pubblicazione. Mi trovavo dunque in una situazione inedita: avevo un editore, che sapevo  che avrebbe preso in considerazione ciò che stavo scrivendo, e le parole erano pigre, poco incisive. Tenendo conto del fatto che nel mio lavoro mi occupo anche di creatività, sapevo che stava succedendo qualcosa di consueto: dopo un libro che ha avuto un buon riscontro, ci si accosta a un altro con molto più timore. Inoltre la creatività stessa ha dei cicli di espressione che si alternano a cicli di chiusura,  di introspezione, e che non dovevo far altro che attendere, e avere fiducia nel fatto che il processo creativo avrebbe trovato per conto suo la strada per prendere forma. Ho atteso per quasi due anni, e fare i conti con quell’attesa ha richiesto l’apprendimento di quella cosa chiamata disciplina. Più volte ho pensato che non ero affatto obbligata a scrivere un altro libro, che non avevo firmato alcun contratto che mi vincolava ad alcunché, tuttavia la tensione era forte, poiché  mentre mi dicevo tutte quelle cose di buon senso, sentivo in modo forte la pressione a scrivere. Ma non sapevo cosa. Ora, non è che io stia scrivendo qui tutto ciò perché penso che possa essere interessante, per chi legge, conoscere la gestazione del libro, penso invece che ciascuno di noi faccia i conti con il processo creativo nelle varie forme di creatività che possiede: dipingere, cucinare, coltivare l’orto, fare la maglia, cantare, danzare. Vivere soprattutto.( La creatività del vivere è la creatività più potente che c’è).  Poi sono accadute due cose: l’incontro con un libro, e la notizia che sarei diventata nonna. Entrambe le cose sono state fondamentali per sbloccare le parole. Vi racconterò come e perché.

venerdì 17 agosto 2012

Donna alla finestra, Caspar David Friedrich

Sto girando da un po' intorno alle parole, ma nessuna di loro mi convince. Inutile fare programmi ora su quale forma prenderà questo blog. Lascio spazio all'immagine, che è stata scelta dall'editore, ma che ho sentito da subito calzante al libro. Questo sarà uno spazio nel quale racconterò com'è nato, gli incontri incredibili e preziosi con le donne che ho intervistato, i luoghi inconsueti nei quali sono approdata. Ma più che altro mi piacerebbe che anche questo blog diventasse un viaggio intenso come è stato La solitudine delle madri, e che insieme riflettessimo su quante gabbie, visibili e invisibili, ci complicano la vita. Eravamo partite dalla madre perfetta, quella mai stanca, né dubbiosa o ambivalente, e direi che abbiamo dato il nostro contributo a renderla più autentica, con le sue fragilità, e le sue giornate no. Ma la maternità è solo una parte della vita di una donna, esistono molte altre aree nelle quali il rischio di gabbie e reclusioni è alto. Ne parliamo?