«La
sorella ha passato il limite della comune cortesia, è bandita da questa
assemblea e non potrà ritornare. Mandatela fuori! Guardie! Buttatela fuori. Non
merita di stare qui dentro!» Pronuncia queste parole Mojadedi, presidente della
Loya Jirga, il Gran Consiglio afgano, e la sorella da buttare fuori è Malalai
Joya, la donna che ha osato denunciare la presenza di “signori della guerra”
all’interno del Parlamento. Era stata invitata come rappresentante di una provincia
nella quale era molto nota per il suo impegno
sociale. Per quel gesto e per le battaglie in difesa dei diritti delle donne
rischia ogni giorno la vita, e per non rendersi riconoscibile indossa lo stesso
burqa che in molte hanno trovato il coraggio di sfilarsi dopo aver ascoltato le
sue parole.
Il libro nel quale Joya
(che non è il vero nome dell’autrice e in afgano significa “cercare”) racconta
la sua storia, ha un titolo eloquente: Finché avrò voce. E la voce è quella di
donna scomoda, indubbiamente. Non sta zitta come si conviene al suo genere,
denuncia, si espone, esprime pareri in un paese nel quale il presidente Karzai
ha firmato, nel 2010, una legge che permette agli uomini di proibire, qualora
lo desiderino, il ricovero in ospedale delle
mogli.
Dove l’integralismo religioso è più
potente, esistono tradizioni retrive all’interno delle quali la violenza prospera.
Tuttavia, a prescindere dal luogo, per ogni donna, in ogni paese, di qualunque
religione e cultura, il dolore è sempre uguale. Impastato di costrizione, fuso
nel silenzio, mescolato alla rabbia, carico di vergogna, amalgamato
all’impotenza.
Quel qualcosa di nuovo pronunciato da Giuliana al termine della sua
testimonianza, quel qualcosa che l’ha spinta a
uscire dalla finestra, ha a che fare con il rispetto: un sentimento
fondamentale per riconoscere diritti e dignità alle persone. Una finestra che
non è solo lo spazio dal quale lei, insieme ai suoi figli, è fuggita, ma è una
metafora sulle aperture, sulle vie di fuga che è necessario cercare. A volte
nascono spontanee dentro di noi dopo aver accumulato una serie di costrizioni:
la misura è colma e d’improvviso è come se potessimo vedere lucidamente ciò che
prima era opaco. Quando quel velo cade, da
sole riusciamo a recidere le sbarre che ci tenevano imprigionate. Talvolta
invece è necessario un aiuto esterno: siamo al limite della sopportazione, ma
non abbiamo la forza di arrampicarci fuori dal gorgo nel quale siamo
precipitate. Può essere accaduto all’improvviso, può essere invece che giorno
per giorno, una parte minima di libertà venga rosicchiata mentre sedimentano
costrizioni e la violenza si traveste di normalità. E’ la situazione più
pericolosa, perché impieghiamo più tempo ad accorgercene. Allora è fondamentale
chiedere aiuto, che sia un’amica, un familiare, un medico di base che può
fornire le prime indicazioni, i servizi sociali, o un centro antiviolenza. Da
qualche parte bisogna partire e in qualche modo bisogna iniziare affinché
qualcuno possa aiutarci a sbrogliare la matassa nella quale siamo impigliate.
Farcela da soli, farcela con l’aiuto di qualcun altro, farcela subito o dopo un
po’, la cosa importante è uscire dagli scantinati della follia di una vita
nella quale un aguzzino tiene le chiavi. Gliele avevamo consegnate noi stesse?
Per ingenuità, per un malriposto concetto di amore, per alleggerirci poiché
talvolta sono pesanti da tenere?
Può essere. Ma non importa. Ciò che
conta è riprendersele.
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