Venera
Nera
(2010) è un film del regista Abdellatif Kechiche: un pugno nello stomaco che
richiede lungo tempo per essere smaltito. Narra la storia di Saartjie Baartman
(1789 - 1815), nata in un villaggio della valle del Gambia, divenuta schiava di
una famiglia di Città del Capo. Portata in Inghilterra, esibita come un fenomeno
da baraccone in infimi
spettacoli, compariva chiusa in una gabbia, o
tenuta a un collare che il suo “padrone” metteva e toglieva secondo il
grado di timore che voleva suscitare tra il pubblico per la presunta
pericolosità della donna, soprannominata la Venere ottentotta. La storia si snoda lungo un percorso infernale
nel quale il suo corpo viene esposto a un pubblico invitato a palpeggiare la
consistenza della sua carne e a sfidarne la presunta “selvaticità”.
Il film gioca
molto sui primi piani del suo volto ed è sconvolgente il dolore che si legge
nel pozzo dei suoi occhi, a cui fanno da contraltare le risate sguaiate degli
spettatori. La solitudine cresce di pari passo con la rabbia, ma quest’ultima è
priva di quella forza che sarebbe utile a Saartjie
Baartman: è una rabbia impotente. Infatti,
quando un’associazione umanitaria denuncia il suo caso, nel corso del
processo che ha lo scopo di stabilire se la donna sia una vittima o una
simulatrice consenziente, Saaertjie confermerà la versione dell’uomo che la
tiene schiava.
La lunga
esperienza di sottomissione ha già irreparabilmente intaccato la sua volontà, e
quell’unica ciambella a cui avrebbe potuto aggrapparsi si è allontanata per sempre.
Dopo gli spettacoli, arriva il tempo dei bordelli, quindi della malattia (la tisi
o la sifilide, non si sa) che la condurranno, a soli venticinque anni, alla
morte.
Mentre sullo
schermo scorrevano le immagini del processo speravo di assistere alla sua
ribellione: una speranza delusa quando Saartjie
testimonia in favore del suo aguzzino. Sulla faccia, la stessa espressione di
quelle donne che, arrivate peste in qualunque pronto soccorso, raccontano di
essere cadute dalle scale.
Verso la fine della storia, c’è un
passaggio nel quale la donna dovrebbe essere osservata dai naturalisti
francesi, perché la forma delle sue natiche e delle sue labbra vaginali
costituiscono interesse per uno studio che dovrebbe dimostrare l’inferiorità
biologica di alcune razze umane. Per questo gli scienziati hanno pagato
un’ingente somma al suo “padrone”. C’è lei, dunque, contornata da uomini che la
osservano come un reperto inanimato. Inizialmente ha le sembianze di un
fantoccio: l’abitudine a restare chiusa in una gabbia è oramai consolidata. Ma
qualcosa succede all’improvviso: uno sguardo, una postura, un gesto che le
donano una vitalità impensata. E quando le chiedono di togliersi l’ultimo lembo
di stoffa che le copre i genitali, Saartjie rifiuta,
e fugge.
A quel punto
del film ho pensato che in tribunale non era riuscita a raccontare la verità,
ma forse quel rifiuto avrebbe potuto finalmente imprimere un corso diverso alla
sua storia. Non è andata così: il tentativo di opporsi a quell’ennesima
umiliazione viene respinto con schiaffi e pugni di inusitata violenza.
Annientata nella dignità, sopraffatta dal dolore, la protagonista si inabissa
nell’alcool.
Una volta
morta, il corpo verrà ricondotto nello stesso luogo in cui Saaertjie aveva
pronunciato il suo unico no. E ancora una volta i naturalisti - tra i quali lo
scienziato Georges Cuvier - possono abbandonarsi allo scempio: guardano,
toccano, invadono, analizzano.
Fu solo attraverso cause legali e una lunga
campagna diplomatica condotta da Nelson Mandela che la Francia restituì la salma
al Sudafrica. Il 6 maggio del 2002, due secoli dopo la sua nascita, le spoglie
della donna tornarono nella valle del Gambia.
Saartjie
Baartman chiusa in gabbia è una metafora dolorosa, potente e tragicamente
attuale. Che dietro le sbarre ci sia il suo corpo per via della particolarità
delle sue natiche o quello delle donne che Lea Melandri efficacemente chiama schiave
radiose, poco cambia. Sempre di gabbia si tratta: sbarre dietro le quali il
corpo della donna è umiliato, ridotto a oggetto di consumo e di scambio. Le
stesse leggi che conducono a un uso sconsiderato della chirurgia estetica tale
da rendere le persone assemblaggi di pezzi di ricambio, creature terrorizzate
dall’eventualità sempre in agguato di una imminente rottamazione.
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