Il
gobbo
Dalla solita sponda
del mattino
io mi guadagno
palmo a palmo il
giorno:
il giorno dalle acque
così grigie,
dall’espressione
assente.
Alda Merini
Nel 1978 veniva approvata la chiusura dei manicomi e la nascita dei
servizi di igiene mentale pubblici. La legge 180 prendeva il nome da Franco
Basaglia, psichiatra, che fu il primo, in Italia, a introdurre la visione di un
malato non più come “matto” o “pericoloso”, ma come persona che necessita di
assistenza e cure. In quegli anni ebbero inizio una serie di cambiamenti che
comprendevano alcuni principi utili a migliorare la condizione dei malati:
uscire dallo spazio chiuso dei manicomi - coinvolgendo le famiglie, la società,
l’ambiente -, e ponevano l’accento sulla prevenzione e la riabilitazione
rispetto alle patologie croniche. Con la legge 180 cessò la consuetudine delle
camicie di forza, dei bagni freddi, dei letti di contenzione, e degli
elettroshock selvaggi. I cancelli dei manicomi si aprirono per lasciare i
malati liberi di passeggiare nei cortili e nei giardini delle strutture, e di
sperimentare modalità inedite di rapportarsi con il personale della comunità
terapeutica. Venne affidato alle Regioni il compito di istituire servizi per
occuparsi dei malati di mente e, di conseguenza, ci sono state differenze anche
notevoli sul piano territoriale, sia in merito alla qualità dei servizi che
alla tipologia delle strutture. A distanza di più di trent’anni dalla legge
Basaglia si sono potute osservare anche le lacune che quel cambiamento aveva
prodotto. La più grave riguarda la solitudine nella quale sono state lasciate
alcune famiglie, impotenti a gestire malati che rifiutano le cure, creando un
livello di malessere all’interno di tutto il nucleo famigliare; malessere che
non di rado sfocia in casi di violenza. La reclusione da cui si era usciti
chiudendo i manicomi, rischia in taluni casi di spostarsi all’interno dei muri
delle case.
.
«Nel
1969 ero stato assunto nell’Ospedale Psichiatrico di Racconigi. Ero uno dei
tanto infermieri ai quali, in quegli anni, non erano richieste particolari
competenze in merito al lavoro di cura, di relazione. Dovevamo vigilare
affinché non ci fossero episodi di violenza, il nostro compito era quello di
“fare la guardia”. Non era previsto che parlassimo con i pazienti, né con i
medici: sarebbe stato impensabile, anche se il tempo che trascorrevamo con i
malati era parecchio. Solo in seguito, quando con la legge Basaglia comparve la
figura professionale degli educatori, ci furono i primi segnali di cambiamento.
A parlare è Bruno, che ha vissuto in prima persona le trasformazioni radicali
di quegli anni.
I
miei primi ricordi, riguardano quelle enormi stanze, veri e propri cameroni con
troppi letti allineati, e quando i malati mangiavano, usavano ancora delle
scodelle di latta che venivano letteralmente buttate sul tavolo: qualcuno le
rovesciava, qualcun altro urlava. Erano situazioni forti, pesanti, che a
distanza di tanto tempo sono ben presenti nella mia memoria. Ma il momento del
pasto era nulla al confronto di altri. Quando arrivava un nuovo malato, c’era
questo rituale ferreo: veniva spogliato davanti a tutti, senza la minima
attenzione al senso del pudore, veniva rasato completamente per timore dei
pidocchi, e privato di ogni oggetto personale prima di fargli indossare un
camicione bianco. E’ difficile dimenticare quelle sensazioni. Primo Levi aveva
scritto Se questo è un uomo, noi, non eravamo in un lager, tuttavia quanto restasse di umano in
quelle persone era una domanda che talvolta mi ponevo anch’io. Un uomo che
viene spogliato senza il minimo tatto, messo in una vasca con gli stessi gesti
incauti riservati a un oggetto poco importante. I suoi abiti venivano raccolti
in un fagotto che veniva depositato insieme a molti altri in un locale adibito
allo scopo. C’era uno stanza enorme, con numerosi scaffali pieni di fagotti,
ognuno dei quali aveva un numero per distinguerlo dagli altri.
Sarebbero rimasti - quasi sempre, per sempre - a impolverarsi insieme a
troppi altri, dimenticati.
Quando
gli educatori iniziarono a lavorare in manicomio, progettarono laboratori
attraverso i quali introdussero l’arte, la musica, il teatro: ruppero un
silenzio nel quale anche noi, insieme ai malati, eravamo rinchiusi».
In effetti fu
attraverso questa nuova figura professionale che giunsero parecchie novità,
prima fra tutte quella dell’uscire fuori.
Inevitabile la resistenza di tante persone di fronte al nuovo. Infatti Bruno ricorda
che il parroco non gradì affatto che i malati, a piccoli gruppi, accompagnati
da educatori e infermieri, si recassero a messa nella chiesa del quartiere, e
insisteva per continuare lui stesso a celebrarla in manicomio. Eppure, poco per
volta, le aperture aumentarono e non era più così inconsueto incontrare dei
malati che, accompagnati, si recavano dal barbiere, nei negozi, o camminavano
per la strada. I cancelli si erano aperti.
Alda Merini è considerata una dei grandi poeti del Novecento. Nella sua
opera, tanto quanto nella sua vita, centrale è stata l'esperienza del manicomio
in cui ha trascorso, sommando i vari ricoveri, quasi dieci anni. Esordì
giovanissima con la raccolta di poesie La
presenza di Orfeo, ed entrò in contatto con personalità come Maria Corti,
Giorgio Manganelli e Salvatore Quasimodo. In quegli stessi anni manifestò i
primi segni della malattia mentale e, appena sedicenne, fu ricoverata per un
mese a Villa Turro, a Milano. Parlerà spesso di quel ricovero, ne scriverà,
come degli altri che invece durarono anni. Furono, insieme alle sue “ombre
della mente”, sofferenze con le quali imparò a convivere e che lei stessa
descrisse capaci di ucciderla e farla rinascere.
La sua è stata
un'esistenza impetuosa, fino alla morte avvenuta nel 2009, a 78 anni. Agli anni
della malattia ne ha alternati altri nei quali la produzione letteraria è stata
fertile. La sua arte è stata rifugio e salvezza e quanto lo sia stata emerge
dalle sue stesse parole: “Se la mia poesia mi abbandonasse come polvere o
vento, se io non potessi più cantare, come polvere o vento, io cadrei a terra
sconfitta, trafitta forse come la farfalla e in cerca della polvere d'oro”.
“Se tu mi concedessi soltanto
la stanza della signora Régnier e la cucina, potresti chiudere il resto della
casa. Non farei assolutamente nulla di riprovevole, ho sofferto troppo…”,
scriveva Camille Claudel dal manicomio di Montdevergues alla madre. Su parere
favorevole dei medici, avrebbe potuto tornare in libertà. Ma dove? Non aveva
denaro, non aveva una casa in cui poter trascorrere la vecchiaia e dovette
chiedere a sua madre di ospitarla. La madre, supportata dal figlio Paul
Claudel, scrittore, diplomatico, fervente cattolico, richiudeva la lettera e
lasciava la figlia in manicomio, premurandosi di scrivere al direttore:
”Tenetevela, ve ne supplico…Ha tutti i vizi, ci ha fatto troppo male”.
Camille è morta dopo
aver trascorso reclusa gli ultimi trent’anni della sua vita. Trent’anni. A un
certo punto qualcosa dentro di lei si era spezzato. Lei scultrice con un
talento ancora troppo inconsueto per una donna e un tempo in cui avere una
relazione con un uomo sposato era ben più difficile che ai giorni nostri; un
tempo in cui una famiglia poteva tener rinchiusa in manicomio una donna scomoda
per il resto della vita nonostante il parere contrario di medici che
sostenevano che poteva tornare a casa. Intanto quella donna giura che non lo
farà mai più, garantisce che non metterà mai più la sua famiglia così per bene
in imbarazzo, aggiunge che mai più esprimerà il suo dolore in modo così
plateale come lei ha fatto, distruggendo per esempio le sue opere. Quando la
rabbia saliva e non c’era modo di contenerla, e non c’era modo di trovarle un
luogo, un senso, un dopo, uno spazio, lei prendeva quelle forme scolpite e le
faceva a pezzi. Distruggeva. Creava e distruggeva. Non sapeva che farne della
rabbia e del dolore e li frantumava insieme alle sue opere.
In quegli stessi anni,
in un’altra località della Francia, viveva Séraphine de Senlis. Di umili
origini, lavorava come governante e di notte dipingeva. La natura era l’oggetto
delle sue opere e per crearle mescolava pigmenti alla terra, al sangue e alle
bacche. Casuale fu la sua scoperta: il critico d’arte e collezionista Wilhelm
Uhde, ospite nella casa in cui lei era governante, vide una sua natura morta,
rimase impressionato da ciò che un’autodidatta aveva dipinto, e decise di
aiutarla. Organizzò mostre, le procurò i materiali per la sua arte e la
supportò in ogni modo. Ma la Grande Depressione era dietro l’angolo: Wilhelm
Uhde smise di comprare e vendere i suoi quadri. A Séraphine mancò l’unico punto
fermo che la sosteneva e, complice un equilibrio già precario, finì in
manicomio dove visse gli ultimi anni della sua vita. Fu ricoverata nel reparto
psichiatrico dell'ospedale di Clermont de l’Oise.
Mi piace immaginare
Séraphine e Camille nello stesso manicomio. Si incontrano in una stanza dove ci
sono colori, marmo e terre che plasmano con quella destrezza innata, e
allentano in quel modo il buio delle stanze, le urla degli altri malati, i
ricordi agghiaccianti, il presente crudele con i suoi odori senza speranza, la
cattiveria che hanno incontrato e incontrano. Mi piace immaginare le opere di
feroce bellezza che quegli anni terribili avrebbero prodotto. In fondo, però,
quel che mi piacerebbe davvero semplicemente sapere che è che - insieme - si
sarebbero fatte compagnia. Sono morte invece lontane dalla loro arte, dai loro
affetti, in solitudine. Sono state sepolte in tombe comuni, senza nome.
Alda Merini era nata nel 1931, Camille Claudel e Séraphine de Senlis
erano nate entrambe nel 1864: anni nei quali pittura, scrittura, scultura erano
considerate qualcosa di inquietante se declinato al femminile. Se a tutto ciò
aggiungiamo qualche ribellione, stranezza, e atteggiamenti per nulla conformi
ai dettami dell’epoca, non facciamo fatica a comprendere i fattori che le hanno
condotte a vivere parecchi anni internate. Possedevano un ragguardevole talento
nel loro campo, accompagnato da una fragilità emotiva che spesso - del medesimo
- è artefice e sciagura.