venerdì 31 maggio 2013

Anni 1930/1940 - Piemonte




Era un caldo pomeriggio d’agosto e anche il gatto cercava riparo dall’afa acciambellandosi sul tavolo in pietra sotto il pergolato. Lontano, dietro le colline, un lampo tagliava di traverso le nuvole. Da un po’ di tempo Oreste teneva d’occhio sua figlia Lucia: alcuni sguardi furtivi e rossori inconsueti lo avevano messo in allarme. Non avrebbe mai osato pensare a ciò che si presentò ai suoi occhi quel giorno in cui un temporale improvviso lo svegliò dal riposo pomeridiano. Sua figlia Lucia e Giuseppe, il ragazzo assunto da poco per i lavori pesanti, erano nel fienile, su una vecchia trapunta, abbracciati, nudi. Imbracciò un forcone - nemmeno un’ombra di sonno era rimasta a rallentargli i pensieri – e li spinse al centro del cortile, urlando e imprecando.
Successe molto in fretta, non permise loro di indossare altro che il loro spavento, poi chiamò i familiari ad assistere a quel processo sommario. A causa del subbuglio, accorsero anche gli abitanti delle cascine limitrofe. “Meglio così”, pensò Oreste, tanto l’avrebbero comunque saputo: in quel modo il suo onore era salvo. In un niente si radunò un gruppo di persone coi visi cotti dal sole, le mani ruvide di lavori pesanti, il respiro contratto: nell’aria si distendeva qualcosa di grave. Teresa, la mamma di Lucia, non si frappose tra il padre e la figlia: nella memoria dei giorni aveva smarrito, se mai c’era stato, qualcosa che avesse le sembianze di una ribellione. Muta, osservava. Oreste pronunciò davanti a tutti la sua condanna.
Da quel momento di Giuseppe si persero le tracce: la minaccia di morte nel caso si fosse avvicinato al paese era più che realistica. Poche settimane dopo Lucia si sposò con un uomo di vent’anni più vecchio che la prima notte di nozze scoprì che la sposa non era vergine. Il mattino seguente il marito riaccompagnò Lucia dal padre, blaterando qualcosa in merito a merce avariata che non avrebbe tenuto. Oreste ricordò a suo genero che lui non aveva figlie, non poteva riprendere in casa qualcuno che non era mai esistito, che tornassero dunque da dove erano partiti.
Lucia ebbe due figli e una vita piena di botte per quell’imene mancante; il suo nome diventò puttana e tale rimase fino a quando morì. I suoi figli assistettero in silenzio alla violenza del padre e nella sua famiglia d’origine la cancellarono da ogni fotografia. In ognuna c’è un gruppo di persone che fissa l’obiettivo della macchina fotografica, con i visi seri degli eventi importanti. In ognuna si intravede una macchia, un’ombra. Se non si conoscesse la storia parrebbe il capriccio di una pellicola avariata dal tempo.

La storia di Lucia mi è stata narrata da una sua pronipote. Le era venuto il desiderio di conoscere meglio i vecchi della sua famiglia e rammentava qualche fugace commento ascoltato da bambina. Cercando informazioni dagli ultimi familiari ancora in vita che potevano ricordarsi di Lucia, scoprì che a distanza di decenni, reagivano con timore anche solo a sentirne pronunciare il nome.
Un centinaio di anni non è sufficiente per archiviare il passato. Tracce e frammenti rimangono e si tramandano, e se oggi sarebbe perlomeno inconsueta una violenza così caratterizzata, le donne muoiono ancora a causa del concetto di possesso. E’ sufficiente leggere gli ultimi dati che riguardano gli omicidi che hanno come filo conduttore “o mia o di nessun altro” per inorridire.

Nessun commento:

Posta un commento